Cancro e solitudine. Il cervello in fuga si legge dai disegni.

I malati di cancro hanno sempre avuto la precedenza. Nella lista operatoria, nelle priorità assistenziali, nella presa in carico domiciliare e nell'assistenza ospedaliera. Ma anche nelle nostre famiglie. Il malato di cancro è al centro di ogni ospedale dove, salvare vite e non aggiustare i bilanci, sia la priorità. Meno male diremmo tutti. Eppure, ci sentiamo come intrappolati in uno stato di mezzo. Quando finirà? L'emergenza sanitaria sta mettendo a dura prova la nostra resistenza.

Ora provate, per un istante ad immaginare quale tempesta emotiva debba attraversare una persona con una diagnosi di cancro. Già la parola fa rabbrividire. Che se ci pensate bene, quel granchio astrologico gli assomiglia pure. Dunque quel paziente, la mattina dell'intervento che demolirà una parte di sè, entrerà in reparto con il suo bagaglio a mano, un fagotto pieno d'ansia dei suoi familiari e nemmeno un abbraccio, non si può più. Il paziente entrerà solo, con la sua diagnosi sotto braccio, e un solo desiderio: fare presto, togliere il pezzo, tornare a casa, ricominciare a vivere. Abbiamo sempre demonizzato la solitudine ed ora dobbiamo fare i conti con la sua dominante presenza, per tutto il ricovero, quando il paziente si calerà nel letto come in una profonda tasca foderata dal silenzio.

Quanto sarà importante una comunicazione sicura, non ubriaca, non terrorizzante, una condivisione? Fondamentale. E prioritario. Perchè ogni istante trascorso da quel momento sarà determinante per la  guarigione di qualsiasi malato. 

I pazienti entrano con la paura negli occhi. Io li ho ben presenti quegli occhi quando chiedo di disegnare se stessi. La paura si imprime nei segni tremolanti, nei dettagli mancanti, negli angoli del foglio. "Non sono capace", mi risponde la maggioranza. Del resto quando è stata l'ultima volta che hanno disegnato quella cosa fatta di una testa, due braccia, un corpo e un paio di gambe che si chiama essere umano? Forse all'asilo. Ma la cosa interessante è l'osservazione e l'analisi del loro disegno. La pochezza di particolari mostra un'attenzione poco incentrata sul presente. I pazienti proiettano se stessi sul futuro incerto e il disegno è uno stereotipo costruito in pochi secondi.  Chi si mette al centro del foglio e chi in un angolo. Il ricovero frammenta il presente. Sgretolato dalla malattia, dall'ignoto e dal desiderio che l'incubo finisca presto, il paziente perde anche fiducia in sè. E' colpa della solitudine. 

Difficile trovare l'equilibrio con questi elementi. Al massimo una smunta luminescenza di uno schermo retroiluminato di un telefonino terrà loro compagnia rievocando un trasporto emotivo.

Dunque si guarisce (forse) con il silenzio, con i pensieri profondi che speriamo non facciano sprofondare anche quelli. Un silenzio lunghissimo, interrotto casomai solo dal flusso incessante dell'ossigeno, dal bip bip di qualche monitor pressorio, o da taluna maschera per aerosol. 

L'intervento chirurgico sconvolgerà ogni immagine corporea. Un sondino naso gastrico, potrebbe  pescare dallo stomaco liquidi verdastri. I drenaggi ai fianchi, il catetere e le flebo, come mille fili, legheranno al letto, costringendo la persona a rimanere immobile, dritta come una mummia, anche se la posizione del sonno è sul fianco da cinquant'anni. E la sua cicatrice addominale, come una imperatrice,  ricorderà di essere davvero malati durante ogni minimo spostamento, quando quei punti come una morsa, tireranno i due lembi. E poi il port, il pic, il vacuum o lo stent, il double j o la centrale, nomi che si attaccano alla pelle come un vocabolario marziano. 

Basterà una goccia di sudore sul viso, un brivido scuotente o un dolore sordo a farli piombare nel panico. Non ci sarà nessuno con loro. Le disposizioni anti Covid sono ferree. E anche se amorevoli infermieri faranno di tutto per non farli sentire estranei sul piede di guerra, i pazienti si sentiranno sprofondare senza quella mano calda della compagna che regge la loro. Senza quella presenza buona di un figlio, di un volto familiare, o senza nessuno che dica semplicemente che andrà tutto bene. Perchè non va tutto bene nella solitudine. E il loro cervello fuggirebbe volentieri altrove. 

Ecco perchè spero che questa emergenza sanitaria finisca presto, che i malati tornino a fare i malati, ma come lo erano un anno fa, accuditi dai loro cari. Vorrei fare tesoro delle loro parole e vedere disegni più ricchi.  Farli tornare bambini, nell'ingenuità e nella spensieratezza del qui e ora, re-imparando a disegnare se stessi allo specchio e non come sterili stereotipi fatti di segni gettati solamente all'aria vuota. Come quel punto di domanda, là in mezzo al foglio. Tra il nulla. Angoloso, incomprensibile, strano enigma umano della solitudine.


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