Nel loro mondo

Il lenzuolo gli copriva la bocca, il naso e metà occhi. Aperti, nella penombra della stanza illuminata solo da una lucina fiacca, sopra al letto. Fuori il vento sibilava sulle finestre e nelle fessure sotto alle porte. Stava per arrivare un temporale. Tra le mani incrociate, appoggiate sul grembo, tre foto in bianco e nero parlavano della sua vita. Le reggeva il mio paziente, immobile come un paradigma eccellente.
Entrai silenziosa, per non destare sussulti e spaventi ma l'effetto fu proprio quello. Il vicino di letto lanciò un urlo che mi passò da timpano a timpano. Forse non era colpa mia. Infatti scalciava con le gambe liberate dal copriletto come se fosse in bicicletta. Una bicicletta con la ruota bucata però. Evidentemente lo spaventavano i cambiamenti repentini, come la luce che entrava dalla porta aperta o lo spostamento d'aria di un corpo stante in piedi davanti a lui. Chiamava mamma. "Mammaaaaa", con tante "a" a seguire. 
Il mio paziente invece stava zitto nella sua postazione. Tre cuscini gli sollevavano il capo tanto che il mento ormai toccava il petto. Aveva un piede blu fuori dalla sponda, fasciato solo sulla caviglia. Anche i polsi erano fasciati. Coprivano gli aghi cannula che si era sfilato rompendosi più volte la vena. Quali sogni potevano ancora coltivare due come loro? Me lo chiesi più volte mentre cercavo di comprenderli.
Il signore che chiamava mamma frugava nervosamente sul cassetto aperto. C'erano delle fette biscottate ridotte in polvere. Le continuava a schiacciare tra le dita come se lo scricchiolio gli provocasse una sana euforia. Sul comodino un pannolone era ridotto in nuvolette di cotone sparse qua e là. Il mio paziente invece, aveva solo un oggetto sul comodino: un vecchissimo Nokia che forse ai mercatini vale una fortuna. Uno dei primi. Ancora con la suoneria inconfondibile. Era posto al centro della piattaforma e non c'era altro.
Sollevai le persiane e feci entrare un po' di luce in quella stanza inquietante. Trovai il coraggio di buttare il cuore oltre l'ostacolo. Mi avvicinai al paziente mascherato e tentai di scoprirlo per guardargli la pancia. Ovviamente glielo spiegai con tutta la dolcezza del caso quello che dovevo fare. Afferrò il mio braccio. Non potevo continuare. Stritolava così forte che mi chiedevo se sarebbe stato mai in grado di romperlo. Resistetti finchè capii che la mia forza era maggiore. Le sue mani erano piene di pieghe e bianche come lenzuola di fantasmi. Non avrebbe ucciso neanche una formica. O forse sì. Una formica se la sarebbe mangiata.
Credo che la demenza sia un serial silent killer. Ti annienta piano, cancella ogni resistenza, ti obbliga ad arrendersi al suo comando. Ti porta però, come i fiori per le api, a cercare luoghi più attraenti, dove la testa si svuota, gli organi perdono peso e il corpo comincia a fluttuare come una boa perduta nell'oceano. Ma senza che tu lo sappia. 
Non è meraviglioso? 
Non è meraviglioso galleggiare in assenza di gravità ? 
E mentre il mio paziente mi descriveva le sue autostrade deserte in cui sfrecciava con la Ferrari a centottanta all'ora seduto sul finestrino con una birra in mano, l'altro cantava "quel mazzolin de fiori", ed era pure intonato. Sono riuscita indisturbata a fare il mio lavoro assecondando il mio pensiero alle loro menti. Mi dovevo fingere come loro. Avevo capito come oltrepassare il muro della loro diffidenza. Ero come affetta, se non proprio da un Alzheimer conclamato, da una diffusa arteriosclerosi. Era solo così che il mio sguardo sotto la mascherina veniva captato affidabile. I miei gesti, le movenze, la voce, ora emanavano buone intenzioni. Ero demente anch'io, ma dentro di loro.

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