Mi hai salvato la vita

Io non avevo capito subito chi fosse. Con un passo così svelto pensavo avesse fretta di arrivare da qualche parte. Che fosse una collega me ne sono accorta quando si trovò di fronte a me e mi fermò mentre aprivo lentamente la porta del centro in cui lavoro. 
"Mi hai salvato la vita Fanni", mi disse. 
La chiave non entrò più nella serratura. Mi cadde, e rumorosamente con il portachiavi risuonò l’eco in corridoio. Mi voltai subito perchè, anche se la collega aveva lanciato quella frase in corsa, le parole erano rimaste ancora a mezz'aria. La immaginavo di fretta verso il timbratore invece era lì accanto a me, ferma, proprio di fronte, con gli occhi che brillavano sotto un paio di occhiali dalla montatura di madreperla e la mascherina sulla bocca. I suoi occhi, chiari, avevano due puntini grigi che sembravano disegnati con il pennarello. E poi quel taglio giovanile, con la frangetta obliqua, il portamento elegante, la guardavo ammirata.  Quella frase mi aveva colpito dritta dritta al cuore mentre le parole ancora volteggiavano come soffioni di tarassaco. Sicuramente non potevo essere stata io ad averle salvato la vita. Si confondeva con un'altra persona, un medico, un chirurgo forse. Invece no. Ero stata io. E mi emozionai terribilmente. Ripetè quella frase. 
Forse "emozionare" non è la parola giusta. Mise in "subbuglio" la mia vita. Ecco, sì, la sconvolse. 
Mai nessuno mi aveva reso così partecipe della sua esistenza.
Ci sono giorni carichi di strani presagi, in cui uno sa che succederà qualcosa fuori dal normale, e altri in cui si sente una fitta di felicità senza alcun motivo apparente. Ed io la sentivo quella fitta.
A ricordarmi il suo tumore all'utero fu un breve flash. 
Aveva superato uno dei più grossi interventi per una donna, insieme a quello del seno, da esserselo dimenticato in due settimane. Era davvero stato facile entrare in un bozzolo ed ossessionarsi ma nello stesso tempo anche liberarsene e volare via dal terrore. Me lo descrisse così il suo turn over con il tumore. Era come se una piccolissima fessura, quasi impercettibile, nell'amigdala, le avesse impedito di avere paura. Anche se la radioterapia le aveva ricordato ogni giorno che il bombardamento contro il cancro avveniva impavido, lei del tumore non aveva la minima preoccupazione.
Le era solo rimasta una tremenda incontinenza urinaria. E di quella si che aveva un'enorme paura. Di quella incontinenza si chiedeva il perchè, cosa avesse fatto per meritarla.
Non usciva più di casa. Non poteva muoversi, nè fare una passeggiata. La frustrazione era tale da averle fatto pensare che era meglio morire. Me lo disse proprio mentre eravamo là, una di fronte all'altra, a ricordare. 
Poi le avevo insegnato degli esercizi, piccole strategie, dato qualche consiglio. Le avevo tenuto le mani nelle mie, dato coraggio e speranza, fiducia, tanta fiducia. Le avevo infuso ciò che non sapeva. Che anche se si è infermiere c’è sempre tanto da conoscere. 
Nessuno le aveva detto come fare. 
Mi aveva trovato per caso, con un passaparola tra colleghe e una sbirciatina sul mio blog, quando mi occupavo di incontinenza urinaria.
Mi tolsi la giacca e la piegai dalla parte della fodera sul braccio, con cura, come se volessi riordinare i pensieri. I miei occhi si innondarono di lacrime, che colavano sul viso, fino a nascondersi sotto la mascherina. "Ti abbraccerei se potessi". 
"E' come se lo avessi già fatto". 
"Grazie amica mia".

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