Scusi ma non so leggere
Prima della carrozzina entravano nel mio ambulatorio i suoi occhi. Neri, come la pece, incastrati nella pelle rugosa e scottata dal sole, di un volto stanco, consumato dalla malattia e dai giorni che precedevano questo, quello della dimissione. Era calvo sulla sommità della testa, con una specie di forfora esfoliata che si appoggiava alle spalle. A destra e a sinistra aveva due ciuffi di capelli grigi. Era quasi buffo a vederlo. Un gigante buono, sulla settantina, risucchiato dalla carrozzina con le maniglie troppo strette.
Si era vestito pesantemente nonostante fuori ci fossero ventiquattro gradi e in ambulatorio mancasse l'aria, pur con la finestra spalancata.
L'operatrice lo lasciò lì, con la cartella in mano e tutta la sua storia sulle ginocchia. Guardava fuori, aveva nostalgia dei suoi campi, dei suoi animali e della vita all'aria aperta, a casa sua, diceva.
Lo avrei tranquillizzato poco, visto l'umore buono e la completa inconsapevolezza di ciò che lo avrebbe atteso da lì ai futuri mesi, e preferivo lasciarlo in quella bolla di incoscienza che protegge l'anima e anestetizza dal barbaro dolore. Non so cosa sia peggio. Non sapere chi sei ed essere felice, o diventare ciò che hai sempre voluto essere, e sentirti solo.
Io reggevo un malloppo di carte. Avrei dovuto spiegargliele tutte, una ad una, leggendole insieme a lui, come sono solita fare, riga dopo riga, con l'evidenziatore sui numeri di telefono, la penna blu per i giorni di appuntamento e quella rossa per la modalità di accesso.
Mi sedetti vicino a lui, non troppo da non rispettare le regole, ma trascinando rumorosamente una sedia.
Gli chiesi se abitava da solo. Mi rispose di sì, ma che qualche amico si era sempre adoperato per fargli dei piaceri. Uno di questi sarebbe venuto a prenderlo la sera.
Poi, con garbo, ripetei la sequenza delle informazioni e gli chiesi di rileggerle, per essere sicura che avesse capito.
Fu in quell'istante lunghissimo che mi resi conto che c'era qualcosa di strano in lui.
Era qualcosa di inafferrabile, e che mi sembrava impossibile.
Rimaneva impassibile sul foglio. I suoi occhi non fissavano alcunchè. Era come se quell'insignificante pezzo di carta fosse bianco, tabula rasa. Avevo scritto il mio nome in un cerchio rosso calcato varie volte. Gli chiesi se ricordava il mio nome, se riusciva a leggerlo.
Mi preoccupai e gli feci alcune domande per capire se era in stato confusionale ma rispondeva a tono, benissimo. Aveva solo un'aria pensosa.
"Ha bisogno degli occhiali?" gli domandai gentilmente.
"No, no, ci ve-do be-nissi-mo", mi disse balbettando timoroso e con una voce di cui notai il suono stranamente indifferente, ma garbata.
Provai a scuoterlo per capire se fosse reattivo o magari disidratato. La malattia gli aveva solcato di rughe la fronte altissima.
Era semplicemente attonito.
Biascicava qualche parola confusa sotto la mascherina ormai inumidita che gli si appiccicava alla faccia. A tratti teneva lo sguardo fisso sulla mia mascherina, seguendo i gesti con occhi sbarrati.
Provai a scuoterlo per capire se fosse reattivo o magari disidratato. La malattia gli aveva solcato di rughe la fronte altissima.
Era semplicemente attonito.
Biascicava qualche parola confusa sotto la mascherina ormai inumidita che gli si appiccicava alla faccia. A tratti teneva lo sguardo fisso sulla mia mascherina, seguendo i gesti con occhi sbarrati.
Non aveva il coraggio di dirmelo.
Ripetei daccapo tutto quanto. Numeri, sequenza, anche utilizzando dei disegni. Forse la stanchezza gli intorbidiva gli occhi, incastrati in quel viso olivastro.
Gli riporsi il foglio da leggere chiedendogli la conferma di quanto avessi scritto su un'unica riga a grandi caratteri. Perchè è davvero complicata la solitudine per alcuni, sempre mista a disperato sconforto durante una malattia.
Niente.
Ripetei daccapo tutto quanto. Numeri, sequenza, anche utilizzando dei disegni. Forse la stanchezza gli intorbidiva gli occhi, incastrati in quel viso olivastro.
Gli riporsi il foglio da leggere chiedendogli la conferma di quanto avessi scritto su un'unica riga a grandi caratteri. Perchè è davvero complicata la solitudine per alcuni, sempre mista a disperato sconforto durante una malattia.
Niente.
Nel duemilaventi? Accade.
Il mio piccolo gigante non sapeva leggere. E nella sua espressione a metà, tra la tristezza e la felicità, come se stesse decidendo in quel momento che tipo di persona essere in futuro, mi mostrava quell'innocenza di chi non solo non ha nessuna colpa, ma è rimasto stretto stretto nella sua umiltà. Fermo di fronte ad un mondo che è andato fortissimo, a mille all'ora, vagando in cerca di quella parte di sè da incastrare nel gigantesco puzzle dell'umanità. O forse no.
Secondo lo studio Istat 2018 sono quasi 600.000 gli analfabeti in Italia. Ovvero coloro che non sanno nè leggere nè scrivere.
Secondo lo studio Istat 2018 sono quasi 600.000 gli analfabeti in Italia. Ovvero coloro che non sanno nè leggere nè scrivere.