Come sepolto nel silenzio

L'asfalto rovente dell'autostrada Venezia Milano, ci mostrava in fondo, l'acqua a pozze. Come un miraggio ne eravamo catturati. Il pensiero era lo stesso per tutti. Il luminare dell'oncologia ci avrebbe dato speranze? O era il miraggio che temprava le nostre paure?
Facevamo quel viaggio con la consapevolezza di chi può ancora sperare. Forse, in un mare grande, ci sono più esperti di maree. E noi stavamo aspettando di cavalcare l'onda giusta. 
Da quando ho scoperto di avere il cancro, non ho mai avuto paura di morire. Mi sono affidato ai medici del nostro ospedale di provincia. Mi sono sentito considerato. E accudito. 
Eppure, nella mia testa, il pensiero di una cura che potesse essere migliore o magica, mi ossessionava da tempo. La vedevo asciugarsi sul cemento e la sentivo definitivamente fermarsi dentro di me.
Arrivammo a Milano puntuali. 
Il Medico, alto, con il camice abbottonato e la cravatta annodata, ci accolse tutti e quattro nello studio. 
Si pagava prima di entrare, quattrocento euro li avevamo risparmiati dal viaggio in Sicilia che non abbiamo più fatto. Abbiamo pagato in contanti come se li avessimo tirati fuori da un maialino di porcellana rosa. 
C'erano solo due sedie di fronte alla scrivania in radica. In una terza, quella di pelle rosso lacca, con lo schienale alto, dietro alla scrivania, stava seduto lui, il Medico.  
Mio figlio e mio fratello rimasero in piedi. 
Avrebbero potuto accomodarsi sul lettino. Non avrebbero disturbato. Ma nessuno disse loro che avrebbero potuto e non batterono ciglio. 
Il Medico sfogliò il mio malloppo di carte. Non mi chiese nulla. 
Non mi visitò. 
Chiuse la cartellina dopo aver letto l'unico foglio sul frontespizio. Era la descrizione della chemioterapia in atto. Tipo di farmaci, numero di sedute. Istologia, reazioni, esami. 
Continui così. "Con-ti-nui- co-sì. Nel suo ospedale stanno facendo bene". Mezz'ora e il consulto era finito.
Non disse altro. Non fece altro. Ed io rimasi ammutolito. Mi sparì la voce, che ancora oggi è roca.
La voce è suono, è al contempo volontà di dire e volontà di esistere. In quel momento non esistevo più. Uscimmo dalla porta. A seguirmi, nel mio andare volutamente lento, mia moglie non parlava. Si reggeva a me, cieca. Il Medico le aveva volutamente inquinato gli occhi. La voce di mio fratello era un bisbiglio indecifrabile. Mio figlio sudava dalle mani, dal collo. I miei muscoli pesavano come piombo e non riuscimmo a partire subito. 
La paura mi spense il corpo per tutto il viaggio di ritorno. Volevo immaginarmi altrove e non incastrato nel terrore di non farcela. 
Ho odiato quel Medico. Per la disumanità, per la freddezza, per avermi sepolto in un silenzio che ancora oggi, pur lottando, mi angoscia. 
Ma stamattina sono tornato dal mio oncologo. 
Non gli ho raccontato nulla. Mi ha steso sul lettino, visitato, girato sottosopra. Ha auscultato il mio cuore con il fonendoscopio. Mi ha messo una mano sulla spalla e detto una semplice frase. "Faremo tutto il possibile". 
Mi è bastata una frase per rendermi di nuovo felice. Non mi mancava più il respiro, sotto al peso di quelle premure. 

(scritto da Fanni Guidolin per il suo paziente, secondo i principi della medicina narrativa)

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