CON GLI OCCHI DI UNA MADRE
È Entrata da quasi due ore per l’esame invasivo pre operatorio e mi sembra un’eternità. Ogni minuto che rotola è un pesante macigno che da madre, e difficile sopportare. L’attesa di una sentenza, quando si tratta della propria figlia, è difficile da mandare giù. Combattiamo da quasi dieci anni con una insipida mav cerebrale che non sembra volersi sradicare. La colpiscono e si riforma, la seccano e si riforma, la bruciano, la tagliano, la radiano. Si riforma. Perfida e infame, come prima.
Si riforma una specie di mostro, una bomba a orologeria nella sua testa, mentre piano piano si demoliscono i mattoni psicologici di una crescita inquietante, i tasselli dell’integrità corporea, una femminilità che non è mai libera di esprimersi perché contaminata dall’insicurezza del: “cosa accadrebbe se la bomba esplodesse?”
Dorme.
Mia figlia dorme.
Per fortuna che dorme.
L’ansia si dissolve nel sonno sciogliendosi come neve al sole, come burro al fuoco, come il dolore nella felicità. Sembra così piccola e così indifesa nell’abito dei suoi diciannove anni. E anche se il pigiama quadrettato con i pallini di velluto rosso sul petto le dà un aspetto di quasi adulta, nel letto di un ospedale abbiamo tutti la stessa piccola bambinesca età. Vorremmo essere accuditi punto. Gli occhi grandi, affondati sul cuscino bianco, sembrano ancora più grandi. Lei, ancora più piccola. Eccoli, sono venuti a prenderla. Sono colleghi, infermieri, medici, eppure così distanti da questo mio sentire.
La posizione rannicchiata sotto ad un cumulo di coperte di lana azzurra si dissolve con il contatto con la realtà.
Lei è?
Mi chiede uno di loro.
Chi sono io?
La collega preoccupata, una madre in ansia, la sanitaria esperta che vorrebbe tanto essere inesperta.
Sono la mamma.
La mamma di quella piccola diciannovenne rannicchiata e impaurita. Quella bambina che piange terrorizzata tenendomi stretta la mano prima di scendere nel bunker della neurochirurgia.
Ma.... Rimanga qui signora.
Sua figlia è maggiorenne. Non può accompagnarla.
E mi si apre un’immensa voragine di dolore.
Non glielo auguro a quell’infermiere una figlia come la mia.
Non se lo merita.