COSI' GRANDE E COSI' PICCOLO
Ti ringrazio D. per questa testimonianza.
Rimango in un angolo della stanza illuminata solo da strisce di luce fendenti la finestra. Tutto tace. Lui dorme.
L'unico segno di vita sono due ramoscelli smilzi di rose appassite che ondeggiano per quel filo d'aria corrente. Cerco di sedermi. Non sono comodo. La mia obesità mi impedisce di poter entrare nel sedile della poltrona, limitato dai braccioli in ferro. Ho scelto allora una sedia di plastica senza braccioli, che spero resista al mio peso. Voglio stare così, accanto a mio padre. Scomodo e sudorante, ma quella mano gliela voglio tenere fino all'ultimo respiro.
Lui mi ha cresciuto, mi ha dato affetto e comprensione quando venivo deriso. E' la mia grotta, il rifugio sicuro. E' il consiglio giusto, la spalla su cui piangere, il mio esempio.
Io non volevo ingrassare. Ero smilzo come un'acciughina sotto sale fino alle scuole medie. Poi, la voragine mi ha inghiottito. Ed io ho voluto inghiottire il mondo.
Era la malattia colpevole di cambiare il mio corpo, non la mia fame compulsiva o le mie brutte abitudini. Solo la malattia. L'obesità è una vera e propria patologia ed io non ho mai voluto curarmi.
"Ascolto il mio respiro insieme al tuo, papà". Senti come sono uguali. Affannati, brevi, superficiali, siamo entrambi sincronizzati in un tempo che perpetua le sofferenze. Tu col cancro che ti ha mangiato tutto, l'intestino, il fegato e i polmoni, scivolando nelle ossa, io con il diabete, il cuore che arranca e il mio zaino di sassi, la vita che non ho vissuto, il mio amore perduto.
E poi ci sono questi centoquarantasette chili di zavorra che non riesco a buttare giù, con le tonnellate di pensieri che mi sovrastano e una sola idea. Quella che il domani sarà migliore. No, non su questa terra. Di là, nell'aldilà, nella vellutata atmosfera romantica e pura, con mia madre e mio padre, e il lui che non ho mai potuto avere, quando ci raggiungerà.
Respira papà. Respira.
Prima lungo poi breve è il tuo espirio. Silenzio. Poi, con un filo di voce mi sussurri...
"Grazie".
Un grazie così candido da turbarmi. Un grazie potente. Si capisce che avresti voglia di accarezzarmi. Una carezza è un gesto umile e affettuoso ma certe regole, retaggio di pregiudizi insuperabili, te lo impediscono. Dalle mie labbra esce un alfabeto muto mentre tu assapori il valore impenetrabile di certi silenzi e mi stringi la mano ancora più forte. Come quando ti ho raccontato di me, quel giorno, e di lui, del mio lui, quel giorno. Lo stesso silenzio, la stessa stretta di mano. Lo stesso inutile straccio di vita che non tornerà mai più.