TOCCA A ME
La ragazza con i capelli legati a crocchia esce dall'ambulatorio con le guance arrossate.
I suoi occhi verde oliva risaltano sul viso ampio e infuocato, incorniciato da una frangia di riccioli rosso tiziano. Sembra scintillante la sua esistenza. Fiammante. Ha appena saputo l'esito del suo esame istologico e il destino che dovrà affrontare.
Abbiamo parlato così a lungo, prima che entrasse, che siamo già diventate amiche. Qui, nella sala d'attesa di questo reparto che sa di naftalina, le amicizie nascono per condivisione di tragedie comuni.
Quando mi viene incontro abbracciandomi, capisco che è stata baciata dalla fortuna, vincitrice di un privilegio che gli altri danno per scontato, la sopravvivenza. Mi dice che non dovrà sottoporsi ad alcuna chemioterapia, che l'intervento è andato bene e lei può dirsi guarita. Il cancro le ha concesso una possibilità di riscatto, come dire...di redenzione.
La notizia, anzichè rendermi felice, mi crea un tale turbamento da farmi sentire male.
Sento il bisogno di correre fuori da queste quattro mura e cerco di riempire i polmoni nel modo più silenzioso possibile. Ho il cervello ingarbugliato e tanta paura. Tanta.
La ghiaia del vialetto scricchiola sotto ai miei piedi. Quel rumore mi infastidisce.
Rientro.
La donna dalla pelle color caffè ha le unghie fresche di manicure. Striscia le mani sui jeans, come se fossero sudate, per asciugarle. Tocca a lei. Ambulatorio sei.
L'altra signora seduta nella poltroncina senza schienale mi chiede timida "tutto bene?". Lo vede che sono un filo elettrico. La bugia scivola agile sulla mia lingua e rispondo con un sicuro "certo grazie!".
Vedo che l'anziana donna uscita dall'ambulatorio numero tre si sta sforzando di non piangere. Ha un pacchettino di crackers in mano, forse per la nausea. Strappa un minuscolo pezzettino ogni tre secondi. E' come se, continuando a masticare, potesse ricacciare indietro le lacrime. Se ne va a braccetto con la sorella, più o meno della stessa età.
Al day hospital oncologico sono poche le persone sorridenti e felici. Non c'è una compressina per il cattivo umore dottore? E per la paura?.
Eccola la ragazza "mocaccina". Esce dall'ambulatorio sei con un pacco di carte in mano. Nell'altra tiene un fazzoletto e si sta soffiando il naso. Poi si avvolge la sciarpa fino a coprire tutta la bocca e fino agli occhi e indossa un cappottone lungo fino ai piedi. Ma quegli occhi rossi mi colpiscono come frecce. Ciao amica mia... Esce dal reparto a testa bassa e in fondo alla gola mi rimane un gusto graffiante. Un'altra vittima penso.
Comincio a tossire. A tossire affannosamente. Una tosse stizzosa e secca, nervosa, disturbante.
Mio marito mi offre una caramella ma non faccio a tempo a scartarla.
Tocca a me.
Ci siediamo con la schiena dritta davanti a lui. Il medico è in piedi e la lastra della mia mammografia è illuminata.
Accanto a me, mio marito mi tiene la mano.
Quando il dottore si gira ci comunica la notizia con il sudore sulla fronte.
Mi sento trafitta. Perforata. Finita. Già morta.
"Quel linfonodo è una metastasi di un carcinoma della mammella signora".
La terra scompare dai miei piedi e mi sento improvvisamente in un altro mondo.
Svengo.
Non ricordo quanto tempo dopo ho ripreso conoscenza. Mi sono svegliata da questo incubo sul mio letto, imbottita di tranquillanti e sonniferi, bagnata fradicia.
Si trattava di un incubo!
Sono corsa in cucina pensando di bere del tè. In piena notte non sempre si è consci delle proprie azioni. Eppure la mia cartellina rossa la vedevo benissimo. Giaceva ancora aperta accanto al vaso di fiori. Forse Omar aveva letto i documenti ieri sera?. Io ricordavo vagamente che nel mio sogno mi veniva data una diagnosi infausta. Ma dove stava il confine tra il reale e il sogno?
Così ho deciso che Dani non sarei stata io. Dani era quella riflessa nello specchio del mio corridoio, quello con la cornice francese. Dani era quella del sogno, dell'incubo, quella malata, col linfonodo in metastasi, io no.
E questo è stato il mio meccanismo di salvataggio. Un ingranaggio sofisticato e ingegnoso per non soffrire nel tempo che mi resta da vivere.
Dani non sono io. Io sto benissimo.
Sono molti i meccanismi di difesa psicologici. Aiutano le persone malate ad affrontare ciò che non si accetta. A sopprimere il dolore, falsificare la realtà, minimizzare la gravità. Aiutano a gestire l'ansia reattiva fino a negare se stessi.