MEDICI UMANI O EXTRATERRESTRI ?

Ho ricevuto questa storia via mail. L'ho riscritta ed elaborata con il consenso del paziente, che vuole rendere omaggio alla dottoressa che lo ha assistito.

Io stavo sul letto col lenzuolo fino agli occhi. Tirava una certa arietta in corridoio.
Aspettavo il mio turno, per una tac all'addome. I dolori erano sempre più forti e insopportabili. Mi contorcevo nel letto ma lei catalizzava la mia attenzione.
La dottoressa che l'aveva prescritta, stava stranamente accanto a me.
Era scesa in ascensore con me, spingendo il mio letto da sola. Aveva percorso tutto il corridoio del piano terra fino alla radiologia ed ora reggeva la cartellina con le mie scartoffie, sistemava la flebo traballante e lisciava pure il lenzuolo. Mi chiedeva quanto dolore provavo da uno a dieci, se andava tutto bene, se avevo freddo o caldo, se ero preoccupato. Me lo chiedeva con un sorriso vero, stampato nel viso puntinato di lentiggini come una spruzzata di pepe sul purè soffice. Io a tratti sudavo freddo, provavo un dolore crampiforme pari a otto e non capivo cosa stava succedendo. Poi passava tutto e avevo una breve tregua.
La dottoressa stava in piedi immobile, nel disarmante candore del suo camice.

Io pensavo che fossero gli operatori a spingere i letti, gli infermieri a sistemare le flebo e i medici a dare gli ordini, aspettando le risposte dei colleghi radiologi per fare diagnosi. Ma oggi la medicina veniva stravolta nella mia testa come se fosse un nuovo avvento. Con la sua umanità, la dottoressa mi stava facendo conoscere il senso della cura.
La mia questione però, doveva essere seria.
I medici non fanno compagnia ai pazienti, non spingono letti e non fanno gli infermieri. E se si fosse trattato di una "extraterrestre in una grottesca sceneggiatura"?...
Fatto sta che con lei accanto, avevo la certezza che non mi sarebbe accaduto niente di grave.

Dopo un tempo tale da sembrare eterno, la dottoressa mi avvisava che era il "nostro" turno. Parlava al plurale, come se la sua empatia fosse tale, da sentirsi malata come me. Lei è un medico chirurgo e temevo sospettasse il peggio per me quando, di là dal vetro, mi fissava negli occhi mentre l'infermiera mi infilava l'ago al braccio. I suoi occhi erano tristi, preoccupati, lucidi. Perchè? Mi chiedevo impaziente.
No non per l'esito della tac. Quella è andata bene per fortuna.
Me lo ha confessato dopo il perchè.
Quella dottoressa aveva perso un figlio.
Un figlio della mia età, cinque anni fa.
Lei,  non aveva capito che l'intestino di suo figlio era perforato.  La tac era stata eseguita tardi e lui non ce l'aveva fatta. Non era colpa sua. Non era colpa di nessuno. La vita va così a volte, sul filo del rasoio.
E il mio povero angelo vive con questo senso di colpa da cinque anni.

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