CON LE UNGHIE E CON I DENTI
Oggi mi inoltro nel luogo più claustrofobico del mondo: la camera iperbarica.
Quando parli di camera a gas, che sia ossigeno o nervino, ti viene un non so che di gusto di morte nella lingua secca. Ma io no, non ho nessunissima intenzione di far vincere quello là. Si quel mostro che ha infilato le sue mani nelle mie tasche, per rubarmi la felicità. Il cancro.
Mi attorciglio il turbante in testa. Infilo un bastoncino di madreperla per fissarlo al capo ed entro in reparto correndo e incespicando. La botolona ci attende tutti, fluttuanti nell'ossigeno puro.
Nella camera iperbarica siamo in dodici. Un tale cocktail di spazi in una botola spaziale è difficile da immaginare, eppure qui, c'è una convivenza tiepida; quasi una brezza calda ti percuote la faccia.
Qualcuno lascia vagare lo sguardo sul soffitto, come se volesse superarlo, per prendere più aria,
sfondarlo e uscire sparato nell'universo immenso.
Tutti proviamo lo stesso sentimento di rabbia e cattiveria per un mostro che ha affondato gli artigli in ognuno di noi. Chi con la leucemia, chi con gangrena ad una gamba, un piede diabetico, un cervello arrovellato dal monossido di carbonio, un tumore al collo. Tanti.
"Siamo qui con la bontà ipotecata", dico al mio vicino. Un ragazzo sulla quarantina che ha solo un avampiede. L'altro manca. Prorompe in una risata il mio amico sub, seduto di fronte, qui per un'embolia gassosa.
La signora in fondo alla panca sta accartocciata come se fosse dentro il cesto di una mongolfiera. Guarda in alto e a destra, con circospezione, in cerca di scintille fiammanti. Non vorrebbe morire così, bruciata viva.
Quando le cellule del cervello hanno sofferto una carenza di ossigeno è ragionevole pensare che il gas puro in gran quantità possa migliorarne le condizioni, ma l'ischemia cerebrale di quella signora ha lasciato strascichi visibili.
Il nonnino accanto al ragazzo ha gli occhiali rotti. Fissa la gonna a corolla della signora con i capelli arancioni. Beata lei che li ha. E così riesco a stento a dissimulare la mia invidia. Infilo le mani nelle tasche e alla rinfusa cerco ciò che non ho.
Trovo una cartina sciupata, di una caramella alla menta succhiata secoli fa insieme a un blocchetto di fogli che mi gonfiano la tasca. Osservo.
Gli occhi mi cadono sui volti destrutturati e scoloriti, sui visi mummificati nel ricordo dei bei tempi andati, cementificati.
No, ho deciso. Io non lo voglio questo stile catalogato. Io voglio gli schiamazzi assordanti e le risate che ti mummificano gli addominali dal dolore terapeutico. Voglio allargare la bocca come un serpente a sonagli e gridare al mondo che voglio guarire, lottare con le unghie e con i denti, con gli occhi sgranati e le pupille di barbagianni. Voglio condannare la malattia ad uno spam perpetuo.
Sogno conversazioni effervescenti con persone libere, senza limiti e tabù. Tenetele pure voi le parure di diamanti, per il momento. Si sa mai che debba venderle per pagarmi la dentiera nuova e il rifacimento di un paio di unghie scalfite. Io lotto.
Quando parli di camera a gas, che sia ossigeno o nervino, ti viene un non so che di gusto di morte nella lingua secca. Ma io no, non ho nessunissima intenzione di far vincere quello là. Si quel mostro che ha infilato le sue mani nelle mie tasche, per rubarmi la felicità. Il cancro.
Mi attorciglio il turbante in testa. Infilo un bastoncino di madreperla per fissarlo al capo ed entro in reparto correndo e incespicando. La botolona ci attende tutti, fluttuanti nell'ossigeno puro.
Nella camera iperbarica siamo in dodici. Un tale cocktail di spazi in una botola spaziale è difficile da immaginare, eppure qui, c'è una convivenza tiepida; quasi una brezza calda ti percuote la faccia.
Qualcuno lascia vagare lo sguardo sul soffitto, come se volesse superarlo, per prendere più aria,
sfondarlo e uscire sparato nell'universo immenso.
Tutti proviamo lo stesso sentimento di rabbia e cattiveria per un mostro che ha affondato gli artigli in ognuno di noi. Chi con la leucemia, chi con gangrena ad una gamba, un piede diabetico, un cervello arrovellato dal monossido di carbonio, un tumore al collo. Tanti.
"Siamo qui con la bontà ipotecata", dico al mio vicino. Un ragazzo sulla quarantina che ha solo un avampiede. L'altro manca. Prorompe in una risata il mio amico sub, seduto di fronte, qui per un'embolia gassosa.
La signora in fondo alla panca sta accartocciata come se fosse dentro il cesto di una mongolfiera. Guarda in alto e a destra, con circospezione, in cerca di scintille fiammanti. Non vorrebbe morire così, bruciata viva.
Quando le cellule del cervello hanno sofferto una carenza di ossigeno è ragionevole pensare che il gas puro in gran quantità possa migliorarne le condizioni, ma l'ischemia cerebrale di quella signora ha lasciato strascichi visibili.
Il nonnino accanto al ragazzo ha gli occhiali rotti. Fissa la gonna a corolla della signora con i capelli arancioni. Beata lei che li ha. E così riesco a stento a dissimulare la mia invidia. Infilo le mani nelle tasche e alla rinfusa cerco ciò che non ho.
Trovo una cartina sciupata, di una caramella alla menta succhiata secoli fa insieme a un blocchetto di fogli che mi gonfiano la tasca. Osservo.
Gli occhi mi cadono sui volti destrutturati e scoloriti, sui visi mummificati nel ricordo dei bei tempi andati, cementificati.
No, ho deciso. Io non lo voglio questo stile catalogato. Io voglio gli schiamazzi assordanti e le risate che ti mummificano gli addominali dal dolore terapeutico. Voglio allargare la bocca come un serpente a sonagli e gridare al mondo che voglio guarire, lottare con le unghie e con i denti, con gli occhi sgranati e le pupille di barbagianni. Voglio condannare la malattia ad uno spam perpetuo.
Sogno conversazioni effervescenti con persone libere, senza limiti e tabù. Tenetele pure voi le parure di diamanti, per il momento. Si sa mai che debba venderle per pagarmi la dentiera nuova e il rifacimento di un paio di unghie scalfite. Io lotto.