L'INFERMIERA CON GLI ZOCCOLI ROSSI
Entrava scalpitante nella mia stanza. Il cigolio degli zoccoli echeggiava già nella tromba delle scale del reparto ed io lo sentivo fino a qua. L'infermiera incrociava il mio sguardo semi nascosto sotto al lenzuolo di stoffa rugosa. Stavo cercando di dormire ma non riuscivo a staccare gli occhi dal mondo.
Intorno a me tutto aveva la sua consistenza. La sedia accanto al letto con il telino bianco sullo schienale mi ricordava la notte di sudore, il pappagallo sotto al comodino che non avevo più il catetere, la piantina di fiori la visita della vicina di casa. E poi c'era il libro di Emily Bronte ancora immacolato. Mia moglie non aveva ancora avuto la mente abbastanza sgombra per leggerlo durante il mio ricovero.
Le riviste di gossip sul tavolo da pranzo le aveva lasciate mia figlia in completo disordine insieme alla paccottiglia nell'angolo e il palo della flebo mi fissava dall'alto con i suoi boccioni di vetro e plastica . E poi c'era lei, in quei zoccoli rossi in gomma di guar .
Fissavo ogni sua azione.
Sostituiva le flebo terminate al mio vicino di letto, controllava che l'ago al braccio funzionasse, contava la quantità di urina nella sacca appesa ai cateteri. Annotava meticolosamente osservandomi di sottecchi. Infilava di tanto in tanto le mani nelle tasche per prendere un paio di guanti puliti, arraffare un paio di forbici o sfilare una penna, e buttava lo sguardo sul mio letto.
Si vedeva che avrebbe voluto dirmi qualcosa, ma rispettava il mio desiderio di esclusione dal mondo terreno. Io ero rintanato nel mio androne sposando le forme di tutti gli oggetti di questa stanza e il grigio del muro. Lei appoggiò lieve l'agenda degli appunti sul tavolo e si sedette accanto a me, nell'unica sedia presente nella stanza, quella con il telino ancora imbibito di sudore. I capelli, ordinati in trecce raccolte a crocchia, le davano un'aria romantica. Io la vedevo dagli occhi a fessura spostare il telino sul bracciolo e disinfettare la sedia con la clorexidina.
Allungò quindi la mano morbida sul mio braccio martoriato e bluastro adagiato sopra al copriletto pesante e aspettò.
Per rispetto, io mi scoprii subito il volto e, imbarazzato, mi sollevai un po' sullo schienale azionando il telecomando elettrico. Il triangolo di ferro appeso al letto mi aiutava nei movimenti.
Mi faceva piacere la sua vicinanza silenziosa. Sapeva di caramella. Ed era una necessità per me una caramella. So che lei era là per me, per farmi sentire meno solo, per regalarmi fotogrammi di conforto. So che aveva una marea di cose da fare, doveva ancora controllare i miei drenaggi, le mie flebo e il mio ago al braccio, eppure stava là. Osservava. Mi osservava.
Puoi capire molto da uno sguardo. Se titubante mostra imbarazzo. Se aperto, sicurezza. Se la palpebra sbatte in continuazione, agitazione, nervosismo. Se cela una lacrima, dolore.
Lei lo capiva dal mio, ed io dal suo. C'erano intesa, e affetto, e rispetto, gradevole rilassamento. Era terapia quello sguardo. Era cura quel silenzio. E l'aria era diventata lieve come il cotone.
Sono tornato a casa ricco, debole ma guarito, vivo.
L'infermiera con gli zoccoli rossi non si dimentica facilmente. Mi ha regalato la forza che non credevo più di avere, la volontà per lottare, il coraggio per accettare le cure chemioterapiche.
Si, grazie a lei fremo di una esaltazione interiore turbinante che nascondo dietro un volto stanco e gesti affettati. Ma ve lo assicuro. Esso e' vitale.
(Ringrazio Gianfranco M. per l'affetto dimostratomi con le sue parole che ho voluto scrivere e raccontarvi)
Intorno a me tutto aveva la sua consistenza. La sedia accanto al letto con il telino bianco sullo schienale mi ricordava la notte di sudore, il pappagallo sotto al comodino che non avevo più il catetere, la piantina di fiori la visita della vicina di casa. E poi c'era il libro di Emily Bronte ancora immacolato. Mia moglie non aveva ancora avuto la mente abbastanza sgombra per leggerlo durante il mio ricovero.
Le riviste di gossip sul tavolo da pranzo le aveva lasciate mia figlia in completo disordine insieme alla paccottiglia nell'angolo e il palo della flebo mi fissava dall'alto con i suoi boccioni di vetro e plastica . E poi c'era lei, in quei zoccoli rossi in gomma di guar .
Fissavo ogni sua azione.
Sostituiva le flebo terminate al mio vicino di letto, controllava che l'ago al braccio funzionasse, contava la quantità di urina nella sacca appesa ai cateteri. Annotava meticolosamente osservandomi di sottecchi. Infilava di tanto in tanto le mani nelle tasche per prendere un paio di guanti puliti, arraffare un paio di forbici o sfilare una penna, e buttava lo sguardo sul mio letto.
Si vedeva che avrebbe voluto dirmi qualcosa, ma rispettava il mio desiderio di esclusione dal mondo terreno. Io ero rintanato nel mio androne sposando le forme di tutti gli oggetti di questa stanza e il grigio del muro. Lei appoggiò lieve l'agenda degli appunti sul tavolo e si sedette accanto a me, nell'unica sedia presente nella stanza, quella con il telino ancora imbibito di sudore. I capelli, ordinati in trecce raccolte a crocchia, le davano un'aria romantica. Io la vedevo dagli occhi a fessura spostare il telino sul bracciolo e disinfettare la sedia con la clorexidina.
Allungò quindi la mano morbida sul mio braccio martoriato e bluastro adagiato sopra al copriletto pesante e aspettò.
Per rispetto, io mi scoprii subito il volto e, imbarazzato, mi sollevai un po' sullo schienale azionando il telecomando elettrico. Il triangolo di ferro appeso al letto mi aiutava nei movimenti.
Mi faceva piacere la sua vicinanza silenziosa. Sapeva di caramella. Ed era una necessità per me una caramella. So che lei era là per me, per farmi sentire meno solo, per regalarmi fotogrammi di conforto. So che aveva una marea di cose da fare, doveva ancora controllare i miei drenaggi, le mie flebo e il mio ago al braccio, eppure stava là. Osservava. Mi osservava.
Puoi capire molto da uno sguardo. Se titubante mostra imbarazzo. Se aperto, sicurezza. Se la palpebra sbatte in continuazione, agitazione, nervosismo. Se cela una lacrima, dolore.
Lei lo capiva dal mio, ed io dal suo. C'erano intesa, e affetto, e rispetto, gradevole rilassamento. Era terapia quello sguardo. Era cura quel silenzio. E l'aria era diventata lieve come il cotone.
Sono tornato a casa ricco, debole ma guarito, vivo.
L'infermiera con gli zoccoli rossi non si dimentica facilmente. Mi ha regalato la forza che non credevo più di avere, la volontà per lottare, il coraggio per accettare le cure chemioterapiche.
Si, grazie a lei fremo di una esaltazione interiore turbinante che nascondo dietro un volto stanco e gesti affettati. Ma ve lo assicuro. Esso e' vitale.
(Ringrazio Gianfranco M. per l'affetto dimostratomi con le sue parole che ho voluto scrivere e raccontarvi)