VOGLIO SFIDARE LA VITA COME UN PAZZO

Una storia incredibile...                              

Non mi ero accorto dell'orario perchè non avevo orologi nè telefonini con me. Quando sentii i sette rintocchi delle campane stridule del campanile, capii che avevo camminato per oltre cinque  ore senza percepire la benchè minima stanchezza. Da Padova, erano circa le due quando partii. Ora mi trovavo a Treville, una piccola frazione di Castelfranco Veneto, a trentacinque chilometri.
A casa avrebbero cominciato a preoccuparsi e, considerando che sarei dovuto tornare indietro, prima di mezzanotte non ce l'avrei fatta.
Marta avrebbe chiamato sua madre allarmata e magari i carabinieri sarebbero venuti a cercarmi con le sirene spiegate seguiti da mio figlio in moto e da Chiara nella sua cabrio scoperchiata. Avrei mosso mezzo mondo solo per non aver pensato al mondo per cinque ore. A nessuno sarebbe importato il mio egoismo. E nessuno avrebbe capito la mia voglia di rinascere.

La verità è che da quando sono stato "sganciato" dal reparto di oncologia, mi sono sentito guarito completamente e ho deciso di prendermi una rivincita. La rivincita contro la morte che mi ha sfiorato e parlato all'orecchio mostrandomi più volte il mio funerale, la cassa in radica di legno rossiccio, le rose bianche sopra, a mazzo composto, con la foto di dieci anni fa, stampata nell'epigrafe e incorniciata, l'unica in cui sorrido. La rivincita contro le lacrime che ho versato e le paure che mi hanno legato; la rivincita contro il cappio che mi sono sempre sentito al collo.
Per cinque anni, ho sistematicamente eseguito tutti i miei controlli come un automa ubbidiente. Non sono uscito più di tanto di casa e non mi sono mai sentito troppo "felice". Abbastanza felice direi, quel tanto che basta per non illudersi. Non ho viaggiato. Avevo paura di vivere troppo. Di consumare le cellule che mi erano rimaste. Dovevo conservarmi.
Ripetuti e stabiliti controlli con esiti nella norma, esami sempre negativi e la totale assenza di recidive, mi hanno comunque, fatto sempre sentire malato frequentando quel reparto, come se fossi stato un elemento in un vortice a spirale che non riesce a vedere la fine. Paradossalmente il mio desiderio di "SFIDA" si fa per dire, contro questa vita, cresceva giorno dopo giorno, insieme alla rabbia per l'ingiustizia della quale ero vittima e disegnavo il mio progetto così, lentamente, mese dopo mese, stando in poltrona ad aspettare il decorso di questi cinque lunghissimi anni.
Una volta uscito dal tornado oncologico, mi immaginavo librare col paracadute nei cieli che sovrastano le Alpi con Chiara; tuffarmi nelle acque gelide dell'Antartide mentre mia moglie mi guardava stupita, o correre in picchiata nella savana, guardando i leoni venirmi incontro. Ma anche attraversare due cime in equilibrio sul filo, con lo strapiombo in cui cadere legati solo ad una caviglia.
Mi immaginavo di scalare l'Everest con mio figlio Alberto, piantando una tenda ogni mille metri di altitudine, per abituare il respiro e i polmoni alle pressioni atmosferiche, ma anche di tuffarmi nel Mar Rosso, quando uno squalo veniva avvistato.
Mi immaginavo, sognavo, leggevo e pensavo. Erano le uniche azioni che impegnavano la mia mente catapultandomi nella progettualità. Alla fine del mio percorso avrei messo in moto la mia macchina da guerra e avrei sfidato la vita come un pazzo, saltando anche giù dall'Empire con il bunging jumping se occorreva, per sentirmi finalmente vivo.
Quello che non avevo mai immaginato era di percorrere un sentiero al buio per cinque ore in totale solitudine. I miei sogni erano ben chiari, al limite della follia, tutt'altro che economici ma sempre in compagnia di qualcuno con cui condividere il rischio. Una camminata mi sarebbe sembrata una banalissima esperienza. Zero adrenalina, noia mortale.
Invece non fu così.
La strada del ritorno costeggiava il fiume. Non c'era illuminazione e l'unica sosta per bere potevo farla a circa un'ora di cammino. Nella cittadina di Camposampiero, per chi conosce le zone, lungo il fiume Muson, c'è una piccola fontanella di acqua potabile.
I grilli erano gli unici compagni. Frinivano in coro con quell'organo stridulatore che possiedono.
Una leggera brezza asciugava il mio sudore e stavo davvero bene. Le lucciole sembravano segnare la strada, o forse semplicemente rincorrermi. I più fastidiosi erano i moscerini. A migliaia contro il viso, tentavano di penetrare tra le labbra serrate e le palpebre semichiuse.
Il percorso lungo l'argine lo conoscevo a memoria. E poi bastava seguire il fiume.
Non mi preoccupavo dei miei familiari ne' della mia salute. Non pensavo alla disidratazione ne' alla stanchezza. E stranamente non mi annoiavo affatto.
Fissavo il cielo farsi sempre più scuro, minuto dopo minuto e vedevo comparire qualche stella. Il silenzio era impressionante. Quando il buio si fece pesto, sentii, nel tratto di asfalto che costeggiava il lungargine, un ticchettio di passi. Sembravano unghie che grattavano incessantemente come per risalire lungo la via. Subito ho pensato ad una grossa nutria e mi sono fermato. Tra i cespugli due occhi tondi e bianchi mi fissavano. Era un cane, un grosso cane simile ad un lupo. Un pastore tedesco forse. No, era proprio un cane lupo. Un lupo vero. Libero. Fino ad allora non avevo mai avuto paura dei cani. Ma un cane lupo non è un cane vero e proprio. E se il cane lupo sbuca da un cespuglio all'improvviso, allora è tutta un'altra cosa. Dovevo pensare solamente ad una possibile via di fuga.
Se mi fossi buttato nel fiume? Se fossi rimasto semplicemente immobile?. Il lupo se ne andò senza avvicinarsi, incurante della mia presenza ma, io cominciavo ad avere paura. Ma che cos'era quella paura ? Paura di morire o paura di soffrire?. Se il lupo mi avesse sbranato sarei morto. Ma se mi avesse ridotto a brandelli avrei sofferto terribilmente e forse sarei morto lo stesso dopo. Avrei potuto urlare e qualcuno mi avrebbe sentito?. Avevo paura di uno stupido cane lupo sbucato da un cespuglio lungo l'argine. Questa era la verità. Paura di morire di nuovo.

Era la prima volta che elaboravo tutta la mia malattia. Cinque anni in cinque ore, dove tutto era andato bene ma in un solo istante tutto poteva finire malissimo.
Così, mentre continuavo a camminare, riflettevo sul tempo perduto in quei cinque anni di malattia inesistente. Alle cose che non avevo fatto, alle parole che non avevo detto. Ai ti voglio bene dei miei figli che non avevo ascoltato.
A quanto mi mancavano in quel momento i miei cari. A ciò che avevo negato loro per tutti quegli anni. Pensavo alle cose semplici, al panino con la nutella che i miei figli mangiavano sul prato di casa nostra, come se fosse il migliore pic-nic della loro vita e alle colazioni a letto che Chiara mi portava e che io puntualmente rifiutavo. Agli aperitivi con gli amici ai quali non sono mai andato e alle foto che non ho scattato.

Sono entrato nel cortile di una casa ed ho chiesto aiuto. Ho potuto telefonare a mia moglie e farmi venire a prendere.
Ho capito una cosa importante: che le sfide si fanno quando c'è la malattia, per sconfiggerla ed evitare la morte, non quando si sta bene, per rischiare la vita. Nessuno te lo perdonerebbe. Nemmeno il tuo io.


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