QUELLA MACCHIA DI CAFFE'

Quella macchia sulla camicia bianca attirava la mia attenzione già alle sette del mattino. Smontavo dal turno di notte e desideravo un cappuccino tiepido, con molta schiuma, giù al bar.
Con gli occhi appannati dal sonno mi sedetti sullo sgabello rotante del bancone. Antonio, il barista, vivacizzava i mattinieri con un inconsueto spiritoso saluto. Praticamente sfornava brioches,  preparava caffè e lavava tazzine, con la stessa velocità di un operaio alla catena di montaggio.
La paziente se ne stava seduta all'angolo appartato del bar, nel tavolino più nascosto, quello di vetro nero. Aveva la sacca del catetere dentro ad una busta della spesa appoggiata per terra, l'ago cannula al braccio coperto da un cerotto sporco di sangue e due paia di infradito più grandi dei suoi piedi, dove le unghie trascurate sembravano uncini perforanti.
Indossava una camicia da notte bianco candido, con i ricami sul collo e sulle maniche. Bellissima. Solo a Burano ne ho viste di simili. Non portava la vestaglia. Sulla fronte, un cerotto si intravvedeva appena, sotto ad una riccioluta massa di capelli crespi, stopposi, giallo secco tendente al bianco. Aveva capito che la stavo osservando. Non avrebbe dovuto trovarsi là. O almeno non in quelle condizioni.
Era stata la macchia di caffè sul petto a farmi venire i dubbi. Si era praticamente versata tutta la tazzina addosso come se l'azione di bere appoggiando le labbra alla tazza fosse disconnessa dalla logica del gesto.
Con gli occhi sbarrati guardava a destra e a sinistra con una rapidità tale da coinvolgere anche me in quel gioco. Il volto era di una bellezza sfigurata dalle pustole di una chemioterapia vendicativa.
Io non ero in divisa, e il mio orario di servizio era terminato alle sei, ma non potevo lasciare così quella signora. Possibile che nessuno si fosse accorto che non era normale tutto ciò?
Osservavo la scena da lontano. Medici ancora in camice smontanti dalla notte per un caffè al volo nemmeno la notarono. C'erano clienti insofferenti, dalla fretta compulsiva in coda alla cassa, ancora con il cotone al braccio dopo un prelievo di sangue al centro prelievi, che attendevano la colazione per non svenire. In piedi al bancone, colleghi stanchi come me, dalla notte di corse su e giù per il reparto, e colleghi appena arrivati per il turno del mattino, passarono accanto alla signora dritti. Entrò anche una donna distinta, ingessata nel suo austero tailleur d'ordinanza. Fissò la paziente e schivò ogni compito sgradito.
Mi accorsi che la paziente aveva il braccialetto identificativo al braccio. Mi avvicinai, le parlai piano, le dissi che ero un' infermiera. Le chiesi se aveva bisogno di aiuto. "Mi sono persa", rispose in dialetto.
Era disorientata e impaurita. Aveva preso il primo ascensore libero ed era scesa con altre persone.
La riportai nel suo reparto, in camera sua, dopo aver avvisato le colleghe. La stavano cercando.
La paziente si coricò immediatamente, rannicchiandosi a bordo del letto, mi chiese di coprirla e di darle dell'acqua, quella con le bollicine. La macchia di caffè stonava in tutto quel candore ma lei si sentiva come a casa, mi disse,  nel suo letto a baldacchino marmoreo, tra le pomposità di una casa barocca, come nella foto che mi mostrò sul comodino.
Mi ringraziò. Era lucida in quel momento, ne sono sicura, perchè mi prese la mano con entrambe le sue, avvolgendola come se volesse custodirla. Era un gesto di tremenda tenerezza, e non potevo non raccontarvelo. E' "il piacere di alleggerirsi" che consiglio a tutti.

Fanni Guidolin

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