PAURA
Percorrevamo la viuzza sterrata e solitaria in bicicletta. Faceva caldissimo, la temperatura sarà stata di ventinove forse trenta gradi e l'acqua nella borraccia assomigliava ad una tisana dal gusto di plastica, vomitevole. Speravamo di trovare un bar, un ristoro, un baldacchino con le bibite ghiacciate o una semplice fontanella d'acqua fresca. Il nulla.
Con i goccioloni di sudore sulla fronte si proseguiva imperterriti. Mi sarebbe andato bene anche un ruscelletto d'acqua corrente, di quelli con i sassi al quarzo sul fondo e qualche pietra ricoperta di muschio ai lati ma, anche se ci trovavamo in una zona della pedemontana, di ruscelli, fossati o torrenti neanche l'ombra.
Ho pensato che forse non era stata una buona idea. Alla settima seduta di chemioterapia, un capriccio così potente poteva costarmi caro. Eppure al mattino mi sono svegliata piena di vita e di voglia di fare. Alla finestra, il paesaggio permeava un'architettura insolita e attraente.
Mentre correvo, il cuore mi batteva forte e sentivo una fatica immane. Il piede girava sul pedale per inerzia e non percepivo più i muscoli. Marina è forte e non deve lamentarsi, pensavo tra me e me mentre mio marito stava tre metri più avanti. Marina non è malata.
Lui, il boss delle curve, chino sul manubrio, ogni tanto svirgolava con acrobatiche evoluzioni. Si sedeva spostando entrambe le gambe da una parte, stava in equilibrio sul palo della bicicletta, correva senza mani. Fiero delle sue capacità si lamentava ridendo, della mia lentezza. Sto parlando di mio marito, un peso massimo di centosette chili di muscoli, ossa e grasso, ma buono come un bambino al parco giochi. E si sa, la libertà di movimento galvanizza i bambini.
Non ce la facevo più ed ho chiesto a Roberto di fermarsi mentre mi sgolavo in un secondo tutta l'acqua plastificata della boccetta. La vista si annebbiava simultaneamente e perdevo improvvisamente l'udito sentendomi ovattata. Mi sembrava di svenire, ho lanciato la bicicletta e mi sono stesa a terra con una paura folle. La conosco quella paura. E' la stessa che ho provato al primo ciclo di chemioterapia, quando pensavo di morire dopo cinque minuti di infusione. Stavolta però non ho perso conoscenza, ma mentre osservavo mio marito dal basso, mi chiedevo quanto stupida fossi stata ad aver voluto interpretare il ruolo della super donna. Lui mi fissava attonito, impaurito, sorreggendomi la nuca e sventolando un pezzo di carta di giornale sul mio volto per farmi riprendere. Anche lui aveva paura. La vedevo nei suoi occhi sbarrati. E quando ha avvicinato la sua fronte alla mia, mi ha sussurrato "bambina, non voglio perderti capito? Vedi di non fare scherzi".
Sono tornata in me in cinque minuti, poi siamo ripartiti. Avremmo percorso la strada del ritorno per tornare poi al parcheggio della nostra auto. Non era il caso di continuare.
Ma è stata una curva troppo rapida, quella del tornante in discesa, a spaventarmi stavolta. Ho visto Roberto sfrecciare sulla bici rossa come una saetta e non riuscire a frenare. Di nuovo, un grumo di gelida paura si raccoglieva nel mio grembo. Roby veniva inghiottito dal ciglio e grattato dall'asfalto caldo. Lo vedevo a terra aperto come un libro. La sua voce era appena un filo. Il mio sguardo vagava nel timore di perderlo e gli occhi correvano nella direzione da cui era arrivato, per capire come potesse essere successo quel volo. Quando mi sono resa conto che non era nulla di grave, sono scoppiata in un pianto a dirotto, abbracciandolo, mentre i nostri respiri si mescolavano.
Abbiamo capito entrambi che il nostro è un legame fortissimo e che la vita potrebbe anche non lasciarci spazi. Da un momento all'altro.
Siamo tornati a casa con le bici in mano, un ginocchio sbucciato e gli acufeni alle orecchie. Ma vivi.
Con i goccioloni di sudore sulla fronte si proseguiva imperterriti. Mi sarebbe andato bene anche un ruscelletto d'acqua corrente, di quelli con i sassi al quarzo sul fondo e qualche pietra ricoperta di muschio ai lati ma, anche se ci trovavamo in una zona della pedemontana, di ruscelli, fossati o torrenti neanche l'ombra.
Ho pensato che forse non era stata una buona idea. Alla settima seduta di chemioterapia, un capriccio così potente poteva costarmi caro. Eppure al mattino mi sono svegliata piena di vita e di voglia di fare. Alla finestra, il paesaggio permeava un'architettura insolita e attraente.
Mentre correvo, il cuore mi batteva forte e sentivo una fatica immane. Il piede girava sul pedale per inerzia e non percepivo più i muscoli. Marina è forte e non deve lamentarsi, pensavo tra me e me mentre mio marito stava tre metri più avanti. Marina non è malata.
Lui, il boss delle curve, chino sul manubrio, ogni tanto svirgolava con acrobatiche evoluzioni. Si sedeva spostando entrambe le gambe da una parte, stava in equilibrio sul palo della bicicletta, correva senza mani. Fiero delle sue capacità si lamentava ridendo, della mia lentezza. Sto parlando di mio marito, un peso massimo di centosette chili di muscoli, ossa e grasso, ma buono come un bambino al parco giochi. E si sa, la libertà di movimento galvanizza i bambini.
Non ce la facevo più ed ho chiesto a Roberto di fermarsi mentre mi sgolavo in un secondo tutta l'acqua plastificata della boccetta. La vista si annebbiava simultaneamente e perdevo improvvisamente l'udito sentendomi ovattata. Mi sembrava di svenire, ho lanciato la bicicletta e mi sono stesa a terra con una paura folle. La conosco quella paura. E' la stessa che ho provato al primo ciclo di chemioterapia, quando pensavo di morire dopo cinque minuti di infusione. Stavolta però non ho perso conoscenza, ma mentre osservavo mio marito dal basso, mi chiedevo quanto stupida fossi stata ad aver voluto interpretare il ruolo della super donna. Lui mi fissava attonito, impaurito, sorreggendomi la nuca e sventolando un pezzo di carta di giornale sul mio volto per farmi riprendere. Anche lui aveva paura. La vedevo nei suoi occhi sbarrati. E quando ha avvicinato la sua fronte alla mia, mi ha sussurrato "bambina, non voglio perderti capito? Vedi di non fare scherzi".
Sono tornata in me in cinque minuti, poi siamo ripartiti. Avremmo percorso la strada del ritorno per tornare poi al parcheggio della nostra auto. Non era il caso di continuare.
Ma è stata una curva troppo rapida, quella del tornante in discesa, a spaventarmi stavolta. Ho visto Roberto sfrecciare sulla bici rossa come una saetta e non riuscire a frenare. Di nuovo, un grumo di gelida paura si raccoglieva nel mio grembo. Roby veniva inghiottito dal ciglio e grattato dall'asfalto caldo. Lo vedevo a terra aperto come un libro. La sua voce era appena un filo. Il mio sguardo vagava nel timore di perderlo e gli occhi correvano nella direzione da cui era arrivato, per capire come potesse essere successo quel volo. Quando mi sono resa conto che non era nulla di grave, sono scoppiata in un pianto a dirotto, abbracciandolo, mentre i nostri respiri si mescolavano.
Abbiamo capito entrambi che il nostro è un legame fortissimo e che la vita potrebbe anche non lasciarci spazi. Da un momento all'altro.
Siamo tornati a casa con le bici in mano, un ginocchio sbucciato e gli acufeni alle orecchie. Ma vivi.