TI ODIO
Dedicata a te, nuova amica mia. La tua storia mi è rimasta impressa come il tuo nuovo bellissimo e significativo tatuaggio, ed ho pensato di scriverla. Ti auguro, con il cuore, di trovare la pace che meriti...
Ieri, un brivido peccaminoso si scioglieva lungo la mia schiena ogni volta che ti vedevo. Ieri, la mia vita era un manuale di autodeterminazione e forza di volontà. Decifravo ogni oggetto che mi apparteneva con la semplice parola ego. Ieri, detenevo un'autostima così alta da farne una mania di grandezza. Mi piacevo, punto. Mi stimavo. Compravo i pantaloni a palazzo, le maglie extra large e le infradito color cobalto, come una brava ragazza normale; il bikini striminzito, il tacco a spillo e la minigonna ascellare, come una meno brava ragazza normale. Ma mi piacevo.
Mi ingessavo nel tubino nero assassino o in un tailleur d'ordinanza, a seconda della serata che mi proponevi. E insieme percorrevamo strade lastricate da un vecchio pavè mano nella mano, e sognavamo palazzi che cambiano pelle ogni mese. Per far finta di essere sempre in posti diversi. Poi arrivò quel giorno.
Tu stanchissimo, salivi in macchina a tastoni. Io mi trovavo sul sedile passeggero e avevo una strana sensazione. Eri cupo, avevi gli occhi stanchi, e ti avevo chiesto se preferivi che guidassi io. Mi guardavi sbieco, come per sottolineare la mia solita esuberanza e cocciutaggine. Volevi guidare tu. Io insistevo ma tu eri sordo.
Litigammo.
Avrei voluto rimanere a terra o salire con Gigi, nel suo macinino scassato. Invece scelsi la tua insistenza, il tuo baffetto stiloso e l'amore che in fondo provavo per te.
Sei uscito di strada, là su quel rettilineo maledetto della Via Commerciale e non ti sei fatto nulla, neanche un graffio né un giorno di ricovero in ospedale, ma hai distrutto la mia vita per un colpo di sonno.
Le gambe incastrate sul cruscotto facevano presagire il peggio. I vigili del fuoco hanno lavorato due ore per estrarmi viva. Dovrei essere grata per questo, invece la rabbia mi corrode ancora oggi dentro al petto come soda caustica. Mi infanga come in una palude. Oh, certo, mi adatto alla nuova condizione, ma senza mai averla accettata. Ho perso l'uso di una gamba e le vertebre schiacciate mi procurano un dolore allucinante. Ogni santo giorno e ogni santo momento questo dolore mi ricorda la tua stupida incoscienza. E' un dolore che non passerà mai. E' una morsa d'acciaio che mi schiaccia, un fuoco che mi brucia. Lo attenuo con la morfina e altri oppiacei. Ti odio.
E' un dolore che non mi fa respirare e che blocca il mio intestino e altri apparati. Blocca le mie emozioni, da dieci lunghissimi anni ormai. Questo odio ha appannato ogni brivido peccaminoso, cancellato il mio amore per te, paralizzato tutte le mie facoltà.
E oggi, che sono ricoverata per l'ennesima volta e i medici non sanno più che fare, io mi piego dai dolori mentre penso alla tua morte. Il cancro ti ha ucciso per caso, una sera, quando meno te l'aspettavi, come tu hai ucciso me. L'hai accettato in silenzio, forse per il senso di colpa che non ti ha mai abbandonato o perché è stato per te una consolazione. Non avresti sopportato di vivere al posto mio.
Allora ripercorro quella sera distruttiva e questi anni di "non vita". Guardo fuori dalla finestra e lo dico alla mia vicina di letto che voglio farcela, cercare qualche surrogato di consolazione, una cura. Glielo dico alla mia nuova amica che voglio riappropriarmi dei miei pensieri con prepotenza ed essere felice; tornare a guardare l'alba accendere il cielo di turchese, sporcarmi di baci, e altro, molto altro ancora...
Ieri, un brivido peccaminoso si scioglieva lungo la mia schiena ogni volta che ti vedevo. Ieri, la mia vita era un manuale di autodeterminazione e forza di volontà. Decifravo ogni oggetto che mi apparteneva con la semplice parola ego. Ieri, detenevo un'autostima così alta da farne una mania di grandezza. Mi piacevo, punto. Mi stimavo. Compravo i pantaloni a palazzo, le maglie extra large e le infradito color cobalto, come una brava ragazza normale; il bikini striminzito, il tacco a spillo e la minigonna ascellare, come una meno brava ragazza normale. Ma mi piacevo.
Mi ingessavo nel tubino nero assassino o in un tailleur d'ordinanza, a seconda della serata che mi proponevi. E insieme percorrevamo strade lastricate da un vecchio pavè mano nella mano, e sognavamo palazzi che cambiano pelle ogni mese. Per far finta di essere sempre in posti diversi. Poi arrivò quel giorno.
Tu stanchissimo, salivi in macchina a tastoni. Io mi trovavo sul sedile passeggero e avevo una strana sensazione. Eri cupo, avevi gli occhi stanchi, e ti avevo chiesto se preferivi che guidassi io. Mi guardavi sbieco, come per sottolineare la mia solita esuberanza e cocciutaggine. Volevi guidare tu. Io insistevo ma tu eri sordo.
Litigammo.
Avrei voluto rimanere a terra o salire con Gigi, nel suo macinino scassato. Invece scelsi la tua insistenza, il tuo baffetto stiloso e l'amore che in fondo provavo per te.
Sei uscito di strada, là su quel rettilineo maledetto della Via Commerciale e non ti sei fatto nulla, neanche un graffio né un giorno di ricovero in ospedale, ma hai distrutto la mia vita per un colpo di sonno.
Le gambe incastrate sul cruscotto facevano presagire il peggio. I vigili del fuoco hanno lavorato due ore per estrarmi viva. Dovrei essere grata per questo, invece la rabbia mi corrode ancora oggi dentro al petto come soda caustica. Mi infanga come in una palude. Oh, certo, mi adatto alla nuova condizione, ma senza mai averla accettata. Ho perso l'uso di una gamba e le vertebre schiacciate mi procurano un dolore allucinante. Ogni santo giorno e ogni santo momento questo dolore mi ricorda la tua stupida incoscienza. E' un dolore che non passerà mai. E' una morsa d'acciaio che mi schiaccia, un fuoco che mi brucia. Lo attenuo con la morfina e altri oppiacei. Ti odio.
E' un dolore che non mi fa respirare e che blocca il mio intestino e altri apparati. Blocca le mie emozioni, da dieci lunghissimi anni ormai. Questo odio ha appannato ogni brivido peccaminoso, cancellato il mio amore per te, paralizzato tutte le mie facoltà.
E oggi, che sono ricoverata per l'ennesima volta e i medici non sanno più che fare, io mi piego dai dolori mentre penso alla tua morte. Il cancro ti ha ucciso per caso, una sera, quando meno te l'aspettavi, come tu hai ucciso me. L'hai accettato in silenzio, forse per il senso di colpa che non ti ha mai abbandonato o perché è stato per te una consolazione. Non avresti sopportato di vivere al posto mio.
Allora ripercorro quella sera distruttiva e questi anni di "non vita". Guardo fuori dalla finestra e lo dico alla mia vicina di letto che voglio farcela, cercare qualche surrogato di consolazione, una cura. Glielo dico alla mia nuova amica che voglio riappropriarmi dei miei pensieri con prepotenza ed essere felice; tornare a guardare l'alba accendere il cielo di turchese, sporcarmi di baci, e altro, molto altro ancora...