Quella maledetta prugna gialla
Storia incredibile sulla precarietà della vita. Ringrazio la figlia di Daniela per avermi consentito di scriverla.
Era liscia, fresca e vellutata. E grossa, come una palla da tennis. Dorata, con un profumo estivo carico di fragranza. Ne avevo comperato un chilo la settimana scorsa e ne era rimasta solo una.
Era una prugna gialla e giaceva sul tavolo, in bella vista, tra la frutta rinsecchita e le banane ancora verdi. La mamma era solita mangiarne una ogni giorno, per la sua regolarità intestinale. E questa abitudine se la portava addosso come un abito. Dopo sette interventi non poteva permettersi di saltare l'appuntamento con il bagno. Che il sacchetto si riempisse di feci tutti i santi giorni era diventata un'ossessione. Mia mamma era stomizzata a causa di un blocco intestinale che le aveva perforato il colon, dieci anni fa. Da allora, defecare era diventato sinonimo di vita.
Avevamo cenato come al solito alle sei e mezza, come le galline dice il mio ragazzo, ma è per favorire la digestione che mia mamma ci ha sempre abituato così.
Era la vita autentica, fatta di ritmi lenti come quelli dettati dalla natura, che mamma ci insegnava. Preponderante era il suo desiderio di cenare sempre tutti insieme.
Quella sera, una minestrina di dado salata, un petto di pollo sottilissimo e qualche foglia di insalata era tutta la nostra cena, prugne comprese. Quell'abitudine non poteva mancare. La prugna era un elemento indispensabile.
Mamma la addentò con forza, asciugandosi con il fazzoletto il bordo del labbro inferiore dove colava il succo. Masticò il boccone e poi lo deglutì, o almeno ci provò.
Trenta secondi bastarono per farla diventare blu galleggiando nel vuoto. Il volto cianotico mi fece gelare il sangue nelle vene. "Mamma!, Mamma!, Mammaaaaaa!!!"
Immobile, giaceva senza sensi a terra con quel boccone di prugna a mezzavia, che non riuscivo a toglierle nemmeno infilandole tre dita in gola.
Mi mancava il fiato e urlavo per cercare il respiro. La scuotevo, l'adagiavo sul fianco, le premevo la pancia per farla vomitare. Piangevo forte, sempre più forte, mentre le urla si espandevano ai piani superiori e i vicini accorrevano impauriti.
Una smorfia le si allargò sul viso. Mamma serrava la mascella stritolando anche le mie dita. Aveva le pupille sbarrate. Mio fratello aveva chiamato l'ambulanza mentre io cercavo, schiaffeggiandola, di tenerla vigile. Mamma non c'era più.
Quel maledetto pezzo di prugna le aveva garantito la salute per anni, e la morte in un minuto.
Da allora, la vita mi obbliga a pensare solo al presente, non al domani o al dopodomani nè a più lontano. E' così che mi viene offerto un piacere sottile e profondo che consiglio a tutti di cogliere. Lo stesso piacere che dà un desiderio, quando si realizza. Allora prendete una penna e un foglio bianco e lasciate cadere un puntino. Siete voi.
Ora fate dipanare linee curve e casuali, scarabocchi e segni, linee banali e distinte o sinuose e interpretabili. Pensate. Agite. Voi siete vivi. Mamma non c'è più.
Era liscia, fresca e vellutata. E grossa, come una palla da tennis. Dorata, con un profumo estivo carico di fragranza. Ne avevo comperato un chilo la settimana scorsa e ne era rimasta solo una.
Era una prugna gialla e giaceva sul tavolo, in bella vista, tra la frutta rinsecchita e le banane ancora verdi. La mamma era solita mangiarne una ogni giorno, per la sua regolarità intestinale. E questa abitudine se la portava addosso come un abito. Dopo sette interventi non poteva permettersi di saltare l'appuntamento con il bagno. Che il sacchetto si riempisse di feci tutti i santi giorni era diventata un'ossessione. Mia mamma era stomizzata a causa di un blocco intestinale che le aveva perforato il colon, dieci anni fa. Da allora, defecare era diventato sinonimo di vita.
Avevamo cenato come al solito alle sei e mezza, come le galline dice il mio ragazzo, ma è per favorire la digestione che mia mamma ci ha sempre abituato così.
Era la vita autentica, fatta di ritmi lenti come quelli dettati dalla natura, che mamma ci insegnava. Preponderante era il suo desiderio di cenare sempre tutti insieme.
Quella sera, una minestrina di dado salata, un petto di pollo sottilissimo e qualche foglia di insalata era tutta la nostra cena, prugne comprese. Quell'abitudine non poteva mancare. La prugna era un elemento indispensabile.
Mamma la addentò con forza, asciugandosi con il fazzoletto il bordo del labbro inferiore dove colava il succo. Masticò il boccone e poi lo deglutì, o almeno ci provò.
Trenta secondi bastarono per farla diventare blu galleggiando nel vuoto. Il volto cianotico mi fece gelare il sangue nelle vene. "Mamma!, Mamma!, Mammaaaaaa!!!"
Immobile, giaceva senza sensi a terra con quel boccone di prugna a mezzavia, che non riuscivo a toglierle nemmeno infilandole tre dita in gola.
Mi mancava il fiato e urlavo per cercare il respiro. La scuotevo, l'adagiavo sul fianco, le premevo la pancia per farla vomitare. Piangevo forte, sempre più forte, mentre le urla si espandevano ai piani superiori e i vicini accorrevano impauriti.
Una smorfia le si allargò sul viso. Mamma serrava la mascella stritolando anche le mie dita. Aveva le pupille sbarrate. Mio fratello aveva chiamato l'ambulanza mentre io cercavo, schiaffeggiandola, di tenerla vigile. Mamma non c'era più.
Quel maledetto pezzo di prugna le aveva garantito la salute per anni, e la morte in un minuto.
Da allora, la vita mi obbliga a pensare solo al presente, non al domani o al dopodomani nè a più lontano. E' così che mi viene offerto un piacere sottile e profondo che consiglio a tutti di cogliere. Lo stesso piacere che dà un desiderio, quando si realizza. Allora prendete una penna e un foglio bianco e lasciate cadere un puntino. Siete voi.
Ora fate dipanare linee curve e casuali, scarabocchi e segni, linee banali e distinte o sinuose e interpretabili. Pensate. Agite. Voi siete vivi. Mamma non c'è più.