UN PUGNO. IL PIU' BEL REGALO DI NATALE.
Era ormai il settimo giorno che il medico entrava in quella stanza. Anche se era la vigilia di Natale, l'atmosfera si poteva tagliare con il coltello. Il clima era teso ed esplosivo.
Il paziente dalla faccia grande e ovale con al centro due occhi neri ed espressivi, giaceva sempre su un lato, con una gamba piegata sulla spondina, come se fosse in fuga.
Si sentiva a suo agio così. Dopo l'ictus e l'intervento chirurgico era già un miracolo che riuscisse a muovere una gamba, figuriamoci ad assumere una rocambolesca figura acrobatica su un letto d'ospedale, imprigionato da cannette, aghi e medicazioni aspiranti sul fondoschiena.
Il mio paziente alternava uno straziante lamento per non riuscire a muovere la gamba sinistra, a un'assordante e rabbiosa invettiva contro tutto il personale. A tratti, con la voce stridula, biascicava parole incomprensibili. Qualcuno entrava nella stanza con il sospiro stanco di chi sta spiegando qualcosa ad un imbecille. Quel qualcuno, non aveva capito che il mio paziente era un uomo travolto dal dolore. Quel dolore che ti fa venire voglia di piangere nei luoghi e nei momenti sbagliati, e di prendertela con tutti gli idioti che sono ancora vivi fuori mentre tu sei già morto dentro.
Ogni tanto il sacchetto, che i chirurghi gli avevano confezionato, si schiacciava tra l'addome importante, prominente solo in proporzione alle gambe, e il materasso, impiastricciando tutte le lenzuola di feci.
Lui, era sempre più taciturno anche per questo.
Quel giorno, il medico entrava per la consueta medicazione e faceva la stessa domanda tutte le volte.
"Come va?"
"Come vuole che vada...", rispondeva depresso il paziente. Una risposta ripetitiva, sempre uguale come le giornate che si succedevano, ondeggianti e instupidite.
Non bastava il tocco lieve del medico sulla spalla ossuta del paziente, nè i suoi audaci tentativi per farlo sorridere. Nemmeno l'infermiere più simpatico riusciva ad estrapolare un pensiero da quella rabbia muta.
Il medico invece sapeva fin troppo bene che l'identità che scegliamo di presentare al mondo può essere molto diversa da quella che teniamo nascosta dentro di noi.
Ma quel giorno, mentre il dottore, con il sudore che gli inzuppava gli abiti e gli incollava i capelli, medicava con cura la ferita, il paziente, guardandolo di sottecchi, giocherellava con le innumerevoli attrazioni della sua tasca. Il fonendoscopio, una penna che tentava simpaticamente di rubare, il foglio spiegazzato delle consegne.
Il medico fece un gesto di simpatico rimprovero, come per assestare una manata. E fu lì che il paziente, serrando la mascella ispida, colpì con un debole pugno la spalla del medico basito. E poi un altro, e un terzo, incitato dallo stesso dottore, che era stupito non per il pugno in sè, che già percepiva l'ematoma formicolante espandersi sul muscolo, ma per aver ottenuto una reazione dal paziente, seppur di sfogo, una reazione.
Erano entrati in burlesca complicità, si erano regalati dei sorrisi vicendevolmente, il dottore era riuscito a tirare fuori dalle macerie un uomo due volte distrutto. I suoi occhi brillavano, anche se freddi e duri come diamanti. E questo bastava.
Ho rivisto quel medico la sera, quando è tornato a casa per cena.
E mentre giocherellava con la mollica del pane, mi raccontava con le lacrime agli occhi la sua soddisfazione. Non dimenticherà mai le sensazioni che si provano quando i pensieri negativi di una giornata pesantissima fluttuano via come palloncini gonfiati con l'elio. Ed io, non ho potuto non raccontarvelo. Il suo sorriso ampio ed euforico lo porto sempre con me. E' l'amore della mia vita.
Il paziente dalla faccia grande e ovale con al centro due occhi neri ed espressivi, giaceva sempre su un lato, con una gamba piegata sulla spondina, come se fosse in fuga.
Si sentiva a suo agio così. Dopo l'ictus e l'intervento chirurgico era già un miracolo che riuscisse a muovere una gamba, figuriamoci ad assumere una rocambolesca figura acrobatica su un letto d'ospedale, imprigionato da cannette, aghi e medicazioni aspiranti sul fondoschiena.
Il mio paziente alternava uno straziante lamento per non riuscire a muovere la gamba sinistra, a un'assordante e rabbiosa invettiva contro tutto il personale. A tratti, con la voce stridula, biascicava parole incomprensibili. Qualcuno entrava nella stanza con il sospiro stanco di chi sta spiegando qualcosa ad un imbecille. Quel qualcuno, non aveva capito che il mio paziente era un uomo travolto dal dolore. Quel dolore che ti fa venire voglia di piangere nei luoghi e nei momenti sbagliati, e di prendertela con tutti gli idioti che sono ancora vivi fuori mentre tu sei già morto dentro.
Ogni tanto il sacchetto, che i chirurghi gli avevano confezionato, si schiacciava tra l'addome importante, prominente solo in proporzione alle gambe, e il materasso, impiastricciando tutte le lenzuola di feci.
Lui, era sempre più taciturno anche per questo.
Quel giorno, il medico entrava per la consueta medicazione e faceva la stessa domanda tutte le volte.
"Come va?"
"Come vuole che vada...", rispondeva depresso il paziente. Una risposta ripetitiva, sempre uguale come le giornate che si succedevano, ondeggianti e instupidite.
Non bastava il tocco lieve del medico sulla spalla ossuta del paziente, nè i suoi audaci tentativi per farlo sorridere. Nemmeno l'infermiere più simpatico riusciva ad estrapolare un pensiero da quella rabbia muta.
Il medico invece sapeva fin troppo bene che l'identità che scegliamo di presentare al mondo può essere molto diversa da quella che teniamo nascosta dentro di noi.
Ma quel giorno, mentre il dottore, con il sudore che gli inzuppava gli abiti e gli incollava i capelli, medicava con cura la ferita, il paziente, guardandolo di sottecchi, giocherellava con le innumerevoli attrazioni della sua tasca. Il fonendoscopio, una penna che tentava simpaticamente di rubare, il foglio spiegazzato delle consegne.
Il medico fece un gesto di simpatico rimprovero, come per assestare una manata. E fu lì che il paziente, serrando la mascella ispida, colpì con un debole pugno la spalla del medico basito. E poi un altro, e un terzo, incitato dallo stesso dottore, che era stupito non per il pugno in sè, che già percepiva l'ematoma formicolante espandersi sul muscolo, ma per aver ottenuto una reazione dal paziente, seppur di sfogo, una reazione.
Erano entrati in burlesca complicità, si erano regalati dei sorrisi vicendevolmente, il dottore era riuscito a tirare fuori dalle macerie un uomo due volte distrutto. I suoi occhi brillavano, anche se freddi e duri come diamanti. E questo bastava.
Ho rivisto quel medico la sera, quando è tornato a casa per cena.
E mentre giocherellava con la mollica del pane, mi raccontava con le lacrime agli occhi la sua soddisfazione. Non dimenticherà mai le sensazioni che si provano quando i pensieri negativi di una giornata pesantissima fluttuano via come palloncini gonfiati con l'elio. Ed io, non ho potuto non raccontarvelo. Il suo sorriso ampio ed euforico lo porto sempre con me. E' l'amore della mia vita.