Ti assisto, per puro amore

Grazie Giada per avermi consentito di raccontare la vostra storia 

Entro nella stanza buia. Il mio paziente sta dormendo. Di tanto in tanto emette un gridolino di dolore e tenta di muoversi, forse per cambiare posizione. E' rientrato da pochi giorni dalla rianimazione. Dall'unica ferritoia delle tapparelle entra uno spicchio di luce. E' un raggio di sole di questo freddo inverno. Peccato che non illumini abbastanza.
Guardo il contatore di battiti che suona aritmico sul comodino. Il flusso d'aria della mascherina è così potente che quasi mi sembra di respirare troppo ossigeno in questa stanza.
C'è un letto solo qui.
Il mio paziente è in isolamento.
Ha contratto un batterio resistente agli antibiotici e coloro che toccano il suo letto devono essere protetti da mascherina, guanti, cuffia e camice antitraspirante. Devono disinfettarsi le mani prima di entrare e prima di uscire. Togliersi tutta questa roba secondo un ordine prestabilito, per non portare in giro il batterio. Buttare tutto negli scatoloni infetti prima di uscire, toccare la maniglia della porta dopo essersi disinfettati le mani.
E' facile sbagliare.
Accanto a lui, la giovane figlia bardata e cuffiata gli pone un fazzoletto bagnato sulla fronte. Ha le mani sudate dentro a quei guanti troppo aderenti. Non ha chiuso occhio stanotte e il suo volto stanco parla da solo. Ha la voce rauca, come se non la usasse da giorni.
Sopporta il sudore sulla fronte e la luce fioca. Sopporta i lamenti del papà. Il capo le ciondola, è stanchissima.
C'è tanta sofferenza in lei. Le lacrime le pungono gli occhi.
Gli cambia la federa umida, gli tiene la mano. Accarezza le sopracciglia, come per lisciarle. Suona il campanello per avvisare l'infermiera che la flebo è finita. Semplici gesti che diventano grandissimi in questa stanza. Ma soprattutto regali grandiosi in questa vigilia di Natale.
Io la osservo. Nelle sue amorevoli cure c'è molto più dell'affetto di una figlia per il padre.
Ci sono un grande rispetto e senso del dovere. C'è un amore immenso.
All'improvviso il mio paziente apre gli occhi. Mi avvicino, ma lui cerca la sua ragazza con lo sguardo. Il groviglio armonioso di fili che lo legano al letto viene subito sbrogliato dalla giovane donna dai capelli biondi, color oro. Un sorriso gli ammorbidisce la linea delle labbra.
Solleva le pesanti dita della mano. Cerca quella di lei, tra le ferritoie delle spondine del letto.
Lei lo bacia sulla guancia prima, dopo avergli spostato la mascherina, e sulla fronte poi.
Gli passa un pettine tra i capelli. Chiede di poter alzare la tapparella.
La luce entra disegnando la parete di rosa. E' il tramonto. Viola e nero.
Poi, lei si avvicina a me silenziosa. Sembra sfiorare il pavimento.
"Non posso vivere senza di lui", mi sussurra.
Provo un tonfo al cuore. Le parole si sovrappongono alla splendida immagine.
"Dovevamo sposarci un mese fa, quando ha scoperto la diagnosi..."
Deglutisco. Inspiro profondamente. Non avevo capito... Ma dalle mie labbra escono queste parole:

"Continuerete a programmare, ve l'assicuro. Stefano ce la farà e non sarà una stomia a bloccare i vostri sogni. E i vostri cuori si lanceranno al galoppo...". 




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