Mi sarei buttato giù
Grazie Attilio...
Avevo appena scoperto che la mia vita non sarebbe stata più la stessa con quel sacchetto attaccato alla mia pancia.
Fu la prima cosa che feci al mio risveglio scivolare con la mano sotto al lenzuolo bianco, incastrarmi tra canne e cannette, tra il deflussore della flebo e quello della nutrizione, tra i drenaggi e i cerotti.
L'ho trovata subito la stomia. Il sacchetto scrosciava sotto alle mie dita, vivido.
Guardai la finestra. Il pensiero di buttarmi giù fu immediato.
La mia testa cominciava a pensare alla vita che ero abituato a condurre. In giro per il mondo, con la ventiquattrore sempre pronta, da un aereo all'altro. Ed ora?
Il nulla invadeva il mio cervello azzerando ogni speranza. Non c'erano equazioni che potessero tranquillizzarmi. Solo disperazione all'ennesima potenza.
Sarei riuscito a volare fino a Parigi di nuovo? Salire sulla Torre Eiffeil per buttarmi giù stavolta?.
Poi entrò lei. La mia infermiera stomaterapista. Un sorriso enorme, gli occhi grandi, con tre rughe perfette e sottili, come se fossero state disegnate in punta di penna. Gli occhiali squadrati, sulla punta del naso, spostati sul taschino immediatamente. Un faccino pallido, reso arguto dal naso dritto e dagli occhi divenuti attoniti.
Io mi strinsi nelle spalle, come se fossi stretto stretto, in un vagone pieno di passeggeri in giacca di tweed. Fuori di qui. Fuori dal mondo. Con la mia ventiquattrore.
Lei mi scoccò nuovamente il suo sorriso raro e luminoso e si sedette vicino a me.
C'è uno strano silenzio quando sei da solo in una stanza d'ospedale nel giorno di Natale. Fuori, i suoni della città frenetica e brulicante, e avida di inutilità natalizie filtravano attraverso i vetri.
"Sono sepolto sotto le lenzuola" le dissi.
Lei quasi franò sul pavimento, ridacchiando. Aveva già capito il mio senso dell'umorismo e partì da questo per trasformare le mie labbra rigide in qualcosa di simile ad un sorriso.
Il suo viso risplendeva di gioiosa aspettativa. Appoggiò la mano sulla mia e mi disse di non avere paura, che non mi sarei liberato di lei facilmente.
Rimase più di un'ora a rasserenare un vecchio strafottente amante della vita. Fievole fu il brandello di forza che riuscì a ricavare da me. Ma ci fu. Lei, con la faccia decisa e spiritosa ma pulita, viaggiava nel mio mondo vagamente indecifrabile, con una carica di forza tremenda.
E anche se mi sentivo schiacciato come una noce, quella cordiale, bonaria e se vuoi ruffiana aria di complicità mi piaceva.
Lei, la mia infermiera stomaterapista, e mia figlia, angelo delle mie notti inquiete, mi hanno salvato la vita.
Avevo appena scoperto che la mia vita non sarebbe stata più la stessa con quel sacchetto attaccato alla mia pancia.
Fu la prima cosa che feci al mio risveglio scivolare con la mano sotto al lenzuolo bianco, incastrarmi tra canne e cannette, tra il deflussore della flebo e quello della nutrizione, tra i drenaggi e i cerotti.
L'ho trovata subito la stomia. Il sacchetto scrosciava sotto alle mie dita, vivido.
Guardai la finestra. Il pensiero di buttarmi giù fu immediato.
La mia testa cominciava a pensare alla vita che ero abituato a condurre. In giro per il mondo, con la ventiquattrore sempre pronta, da un aereo all'altro. Ed ora?
Il nulla invadeva il mio cervello azzerando ogni speranza. Non c'erano equazioni che potessero tranquillizzarmi. Solo disperazione all'ennesima potenza.
Sarei riuscito a volare fino a Parigi di nuovo? Salire sulla Torre Eiffeil per buttarmi giù stavolta?.
Poi entrò lei. La mia infermiera stomaterapista. Un sorriso enorme, gli occhi grandi, con tre rughe perfette e sottili, come se fossero state disegnate in punta di penna. Gli occhiali squadrati, sulla punta del naso, spostati sul taschino immediatamente. Un faccino pallido, reso arguto dal naso dritto e dagli occhi divenuti attoniti.
Io mi strinsi nelle spalle, come se fossi stretto stretto, in un vagone pieno di passeggeri in giacca di tweed. Fuori di qui. Fuori dal mondo. Con la mia ventiquattrore.
Lei mi scoccò nuovamente il suo sorriso raro e luminoso e si sedette vicino a me.
C'è uno strano silenzio quando sei da solo in una stanza d'ospedale nel giorno di Natale. Fuori, i suoni della città frenetica e brulicante, e avida di inutilità natalizie filtravano attraverso i vetri.
"Sono sepolto sotto le lenzuola" le dissi.
Lei quasi franò sul pavimento, ridacchiando. Aveva già capito il mio senso dell'umorismo e partì da questo per trasformare le mie labbra rigide in qualcosa di simile ad un sorriso.
Il suo viso risplendeva di gioiosa aspettativa. Appoggiò la mano sulla mia e mi disse di non avere paura, che non mi sarei liberato di lei facilmente.
Rimase più di un'ora a rasserenare un vecchio strafottente amante della vita. Fievole fu il brandello di forza che riuscì a ricavare da me. Ma ci fu. Lei, con la faccia decisa e spiritosa ma pulita, viaggiava nel mio mondo vagamente indecifrabile, con una carica di forza tremenda.
E anche se mi sentivo schiacciato come una noce, quella cordiale, bonaria e se vuoi ruffiana aria di complicità mi piaceva.
Lei, la mia infermiera stomaterapista, e mia figlia, angelo delle mie notti inquiete, mi hanno salvato la vita.
Non avrei mai pensato che essere una infermiera potesse significare tanto. Vi assicuro che il mio, è il lavoro più bello del mondo.
Fanni Guidolin