Ho sposato un infermiere
Questa storia meritava semplicemente di essere raccontata....
... fiera di essere una infermiera.
Oggi il capo mi ciondola.
Mi danno fastidio anche i bambini dei vicini, che corrono riempiendo di grida il giardino.
Sono stata dimessa da pochi giorni e ci mancava anche questa giornata triste e angusta, di nuvoloni e minacce temporalesche.
Solo il vento lascia un rassicurante fruscio.
Il suono della busta di plastica attaccata alla mia pancia è la causa di queste lacrime. Mi pungono gli occhi. Io non lo volevo questo sacchetto definitivo. Non la volevo la stomia.
Esco dal cancello con gli zoccoli che scalpitano nervosi sul tufo delle aiuole e imbocco la stradicciola sterrata accanto a casa mia. Hanno tagliato il prato. L'erba secca ammucchiata laggiù, mi accoglie in un nido pungente e mi stendo fissando le nuvole grigie.
Pensavo che finire sotto ai ferri mi avrebbe dato, al risveglio, la certezza che il mio tumore non fosse mai esistito, che la mia vita non sarebbe cambiata, che sarei stata solo in vacanza, due settimane, in ospedale, a fare quello che si doveva fare, punto.
Pensavo anche che non avrei sofferto, e che non sarei cambiata fisicamente. Certo avrei perso qualche chilo di troppo, ero felice.
E pensavo che tutti i miei amici, al mio ritorno a casa, non si sarebbero accorti di nulla.
Invece eccomi qua, a piangere su un mucchio di fieno rinsecchito, lontana da tutti e da tutto, a disprezzare il mio corpo e ad arrabbiarmi con il mondo intero.
Hanno tolto tutto, mi ripeto. Il tumore non c'è più e non dovrò fare nessuna terapia. Nè chemio nè radioterapie. Non avrò restrizioni alimentari nè certificati di disabilità. Dovrei essere felice?
Dovrei.
La rabbia si alterna alla profonda indignazione per la mia condizione. L'illusione di guarire resta impigliata non so dove. Io mi sento malata.
Poi, fissando la linea dell'orizzonte che mi appare liquida e storta da questa prospettiva, mi accorgo che lui sta venendo verso di me, in bicicletta. Il suo profumo aleggia in questa viuzza. Il cuore sembra minacciare di scoppiarmi nel petto. Ancora mi emoziona quando torna dal turno in ospedale. Lui sa prendersi cura di me in ogni istante, anche se è stanchissimo. Non dimenticherò mai quanto mi rende felice quell'uomo.
Gli vado incontro. Sapeva dove trovarmi.
Appoggia la bici a terra sorridendo. E' un groviglio armonioso il nostro abbraccio.
Mi chiede come sto. Mi chiede se ho pianto. Mi asciuga gli occhi con le dita calde, baciandomi la punta del naso. Mi accarezza i capelli spostando indietro la frangetta lunga sugli occhi.
Ingoio le parole che sono salite sulle labbra limitandomi ad annuire.
Mi lascio avvolgere dalle sue mani grandi e il mio pianto si fa copioso e ininterrotto. Ed è così che il ricordo di quella che ero un anno fa sorge come una scintilla e prende forma. Catalizzavo le energie di tutte le persone che mi circondavano e le convogliavo in una unica direzione. Dentro di me. Me lo ha insegnato lui, che lo fa ogni giorno con tutti i suoi pazienti in ospedale. Credo sia un infermiere fantastico a giudicare da come lo è con me. Proprio così, sa convogliare ogni parola sopra alle giuste immagini. Quelle della sofferenza che incontra. Riconosce le acqua chiare da quelle scure e impetuose. Sa arginare il mare, come uno scoglio. E' un infermiere.
Lui non lo nota nemmeno il mio sacchetto. Neanche quando mi stringe forte e il fruscio si percepisce tra noi. E non si accorge nemmeno quando il mio intestino, senza preavviso scoppietta e scarica dentro la busta di plastica. Di nulla. Lui non mi vede grassa e tantomeno disabile. Non mi vede brutta nè malata.
"Come potrei vivere senza di te?. Sei la mia ragione di vita", mi sussurra piano.
"E che importanza ha tutto il resto?". Ho sposato un infermiere, il resto non conta.
... fiera di essere una infermiera.
Oggi il capo mi ciondola.
Mi danno fastidio anche i bambini dei vicini, che corrono riempiendo di grida il giardino.
Sono stata dimessa da pochi giorni e ci mancava anche questa giornata triste e angusta, di nuvoloni e minacce temporalesche.
Solo il vento lascia un rassicurante fruscio.
Il suono della busta di plastica attaccata alla mia pancia è la causa di queste lacrime. Mi pungono gli occhi. Io non lo volevo questo sacchetto definitivo. Non la volevo la stomia.
Esco dal cancello con gli zoccoli che scalpitano nervosi sul tufo delle aiuole e imbocco la stradicciola sterrata accanto a casa mia. Hanno tagliato il prato. L'erba secca ammucchiata laggiù, mi accoglie in un nido pungente e mi stendo fissando le nuvole grigie.
Pensavo che finire sotto ai ferri mi avrebbe dato, al risveglio, la certezza che il mio tumore non fosse mai esistito, che la mia vita non sarebbe cambiata, che sarei stata solo in vacanza, due settimane, in ospedale, a fare quello che si doveva fare, punto.
Pensavo anche che non avrei sofferto, e che non sarei cambiata fisicamente. Certo avrei perso qualche chilo di troppo, ero felice.
E pensavo che tutti i miei amici, al mio ritorno a casa, non si sarebbero accorti di nulla.
Invece eccomi qua, a piangere su un mucchio di fieno rinsecchito, lontana da tutti e da tutto, a disprezzare il mio corpo e ad arrabbiarmi con il mondo intero.
Hanno tolto tutto, mi ripeto. Il tumore non c'è più e non dovrò fare nessuna terapia. Nè chemio nè radioterapie. Non avrò restrizioni alimentari nè certificati di disabilità. Dovrei essere felice?
Dovrei.
La rabbia si alterna alla profonda indignazione per la mia condizione. L'illusione di guarire resta impigliata non so dove. Io mi sento malata.
Poi, fissando la linea dell'orizzonte che mi appare liquida e storta da questa prospettiva, mi accorgo che lui sta venendo verso di me, in bicicletta. Il suo profumo aleggia in questa viuzza. Il cuore sembra minacciare di scoppiarmi nel petto. Ancora mi emoziona quando torna dal turno in ospedale. Lui sa prendersi cura di me in ogni istante, anche se è stanchissimo. Non dimenticherò mai quanto mi rende felice quell'uomo.
Gli vado incontro. Sapeva dove trovarmi.
Appoggia la bici a terra sorridendo. E' un groviglio armonioso il nostro abbraccio.
Mi chiede come sto. Mi chiede se ho pianto. Mi asciuga gli occhi con le dita calde, baciandomi la punta del naso. Mi accarezza i capelli spostando indietro la frangetta lunga sugli occhi.
Ingoio le parole che sono salite sulle labbra limitandomi ad annuire.
Mi lascio avvolgere dalle sue mani grandi e il mio pianto si fa copioso e ininterrotto. Ed è così che il ricordo di quella che ero un anno fa sorge come una scintilla e prende forma. Catalizzavo le energie di tutte le persone che mi circondavano e le convogliavo in una unica direzione. Dentro di me. Me lo ha insegnato lui, che lo fa ogni giorno con tutti i suoi pazienti in ospedale. Credo sia un infermiere fantastico a giudicare da come lo è con me. Proprio così, sa convogliare ogni parola sopra alle giuste immagini. Quelle della sofferenza che incontra. Riconosce le acqua chiare da quelle scure e impetuose. Sa arginare il mare, come uno scoglio. E' un infermiere.
Lui non lo nota nemmeno il mio sacchetto. Neanche quando mi stringe forte e il fruscio si percepisce tra noi. E non si accorge nemmeno quando il mio intestino, senza preavviso scoppietta e scarica dentro la busta di plastica. Di nulla. Lui non mi vede grassa e tantomeno disabile. Non mi vede brutta nè malata.
"Come potrei vivere senza di te?. Sei la mia ragione di vita", mi sussurra piano.
"E che importanza ha tutto il resto?". Ho sposato un infermiere, il resto non conta.