Io mi arrangio
Arrivo in reparto alle quattro meno un quarto, quando avrei dovuto timbrare il cartellino in uscita e invece ho ancora due nuovi pazienti da vedere.
Entro nella prima stanza con il mio solito iperattivismo sciatalgico, infatti il dolore al gluteo si fa preponderante e rallento il passo obbligatoriamente.
Il paziente dorme (o cerca di dormire) completamente al buio. Respiro una sorta di esoterismo e spiritualità tra queste quattro pareti. È strano come alla vitalità di un sole primaverile si preferiscano le tenebre e l'oscurità. Solo un sottile cono di luce tenta di entrare da uno spiffero della persiana. Sugli occhi, il mio paziente tiene un foulard di seta blu, le braccia pesanti sulla faccia nonostante i deflussori delle flebo, una gamba sotto alle lenzuola e una fuori, semipiegata. Conto tre drenaggi, la sacca catetere, quattro flebo e una sacca da stomia. Mi fa tenerezza e.. tanta pena, ma nello stesso tempo penso che al centro stomizzati troverà tanta solidarietà e conforto, oltre che risposte ai suoi dubbi.
Faccio vorticare i fogli che ho in mano ma lui si accorge immediatamente della mia presenza e mi saluta fissandomi con un solo occhio semi aperto e l'altro chiuso e schiacciato dal suo gomito. La luce artificiale del neon gli da' ancora più fastidio.
Per entrare nel giusto "mood", gli spiego, seduta accanto al letto, il mio ruolo. "Buongiorno, sono la sua stomaterapista". Il mio sorriso cerca di sovrastare la sua smorfia di scetticismo.
Solitamente i pazienti mi fissano basiti come se avessi pronunciato una parola in turco. Lui no.
Si è documentato in internet e sa già tutto. O quasi.
Gli esprimo allora la mia disponibilità ad ascoltare le sue paure, ad aiutarlo a condividere le sue preoccupazioni e a risolvere i suoi dubbi. Ma per la prima volta, mi trovo di fronte ad un nuovo meccanismo di difesa psicologica. L'evitamento.
Per la psicologia cognitiva, questo tipo di difesa è alla base di credenze per le quali l'individuo evita di esporsi a situazioni che gli creano paure o senso di pericolo e tanto più eviterà di esporsi a tali situazioni, tanto più crederà nel loro pericolo.
Il mio paziente tenta di snocciolare le mie argomentazioni in un un piccolo mallo, non lascia spazio al mio supporto e cerca di tagliare corto. Non insisto.
"Io mi arrangio", sembra voler dirmi. Ma sono sicura che questa incredibile e ostentata sicurezza sia solo il modo per non farsi inghiottire dal temibile cancro. " E non mi chieda di sorridere", aggiunge, prima di darmi il tempo di replicare.
Sono certa che domani metabolizzerà il nostro incontro, schiverà il dovere sgradito di accettare la sua malattia e si dedicherà a se stesso. Si ascolterà, rintraccerà le profonde sorgenti della sua insicurezza e le sue giornate diventeranno grandi e piene come pianure illuminate dal sole. Ne sono certa.
Diamogli il tempo.
Entro nella prima stanza con il mio solito iperattivismo sciatalgico, infatti il dolore al gluteo si fa preponderante e rallento il passo obbligatoriamente.
Il paziente dorme (o cerca di dormire) completamente al buio. Respiro una sorta di esoterismo e spiritualità tra queste quattro pareti. È strano come alla vitalità di un sole primaverile si preferiscano le tenebre e l'oscurità. Solo un sottile cono di luce tenta di entrare da uno spiffero della persiana. Sugli occhi, il mio paziente tiene un foulard di seta blu, le braccia pesanti sulla faccia nonostante i deflussori delle flebo, una gamba sotto alle lenzuola e una fuori, semipiegata. Conto tre drenaggi, la sacca catetere, quattro flebo e una sacca da stomia. Mi fa tenerezza e.. tanta pena, ma nello stesso tempo penso che al centro stomizzati troverà tanta solidarietà e conforto, oltre che risposte ai suoi dubbi.
Faccio vorticare i fogli che ho in mano ma lui si accorge immediatamente della mia presenza e mi saluta fissandomi con un solo occhio semi aperto e l'altro chiuso e schiacciato dal suo gomito. La luce artificiale del neon gli da' ancora più fastidio.
Per entrare nel giusto "mood", gli spiego, seduta accanto al letto, il mio ruolo. "Buongiorno, sono la sua stomaterapista". Il mio sorriso cerca di sovrastare la sua smorfia di scetticismo.
Solitamente i pazienti mi fissano basiti come se avessi pronunciato una parola in turco. Lui no.
Si è documentato in internet e sa già tutto. O quasi.
Gli esprimo allora la mia disponibilità ad ascoltare le sue paure, ad aiutarlo a condividere le sue preoccupazioni e a risolvere i suoi dubbi. Ma per la prima volta, mi trovo di fronte ad un nuovo meccanismo di difesa psicologica. L'evitamento.
Per la psicologia cognitiva, questo tipo di difesa è alla base di credenze per le quali l'individuo evita di esporsi a situazioni che gli creano paure o senso di pericolo e tanto più eviterà di esporsi a tali situazioni, tanto più crederà nel loro pericolo.
Il mio paziente tenta di snocciolare le mie argomentazioni in un un piccolo mallo, non lascia spazio al mio supporto e cerca di tagliare corto. Non insisto.
"Io mi arrangio", sembra voler dirmi. Ma sono sicura che questa incredibile e ostentata sicurezza sia solo il modo per non farsi inghiottire dal temibile cancro. " E non mi chieda di sorridere", aggiunge, prima di darmi il tempo di replicare.
Sono certa che domani metabolizzerà il nostro incontro, schiverà il dovere sgradito di accettare la sua malattia e si dedicherà a se stesso. Si ascolterà, rintraccerà le profonde sorgenti della sua insicurezza e le sue giornate diventeranno grandi e piene come pianure illuminate dal sole. Ne sono certa.
Diamogli il tempo.