Senza un braccio: quando la disabilità apre il cuore
(Tratto da una storia vera. Con il consenso del protagonista, ho pubblicato la sua foto.)
Metti un cuore fragile in un fisico possente, alto. Una capigliatura ribelle, ingrigita dal tempo, in un cervello acuto ed estremamente intelligente. Un braccio, uno solo, in un uomo semplice, accompagnato ed innamorato, ma sensibile.
Eccolo è lui, è il mio paziente nuovo, quello che non mi lascerà indenne da un turbine di emozioni che faranno trapelare un amore ancora più profondo per la mia professione.
Lui ritiene che il mio lavoro sia estremamente utile e particolare, per chi non riesce mai ad entrare in stretto contatto con ogni centimetro del proprio corpo, come lui. E' il tocco che diventa terapeutico, è lo sfioramento che fa prendere coscienza dei segnali offuscati dal tempo. Muscoli dimenticati, aneddoti svelati superando i confini di un pudore imperante.
L'ho capito subito quando l'ho incontrato che sarebbe stata un'altra lezione di vita la sua. Quella del mio paziente è la storia di un lutto indescrivibile.
"La perdita di un arto ti rende un uomo a metà e ti devi re-inventare, ripartire daccapo. E' come nascere due volte e scoprire solo dopo moltissimo tempo che i limiti fisici sono pochi, quelli psichici insormontabili. All'inizio vorresti morire. Se poi la vita ti riserva altri lutti ti chiedi come si possa riuscire ad abbandonare quel maledetto senso di colpa. Quello che ti si appiccica ai capelli come un grumo di catrame. E più lo tasti e cerchi di liberartene, più ti avvolge, ti annienta, non viene via".
Si adagia piano sul lettino cigolante il mio paziente. Rimuove la protesi obsoleta. Un braccio bionico rattoppato con lo scotch che ancora non gli hanno sostituito. Non ci sono i fondi. Le cinghie sulla spalla sono così strette che lasciano i solchi sulla pelle. Ovviamente all'inizio non è capace di grandi agilità e tende a scomporsi nell'affrontare passaggi intricati. Ma poi, lo vedo partire e dribblare le difficoltà mentre soluzioni alternative gli lambiscono la mente. Lo osservo con ipnotica attenzione e capto la sua anima, divorata da un sottile, febbricitante nervosismo. Respira. Piano. Respira. Piano. Il fiato gli ritma un tempo tutto particolare, come un orologio svizzero chiuso nella cassa di una pendola, come in una bolla di suono che si proietta dritto in ogni muscolo. Su e giù. Contrai, rilassa. Su e Giù. Contrai, rilassa. Ritmico, in un suono liquido, un rumore morbido, nessuna stonatura.
Giorno dopo giorno, conquista dopo conquista, il mio paziente prende possesso del suo corpo dall'immagine sfumata nella sua mente, e fa ricomparire il suo arto fantasma.
Con tacito rimprovero, corruga spesso le sopracciglia arcuate. Nasconde due bellissimi occhi dietro a palpebre pesanti e timide. A stento mi regala un sorriso, liberato solo da un'accozzaglia di battute rubate dal mio repertorio. Lo faccio per lui, ironicamente, che sblocca il diaframma con una risata stempiata e imbolsita e slega la pellicola opalescente che per troppo tempo lo ha sotterrato. E' miracolosa la sua trasformazione, ve l'assicuro, emozionante.
Saranno state quelle pagliuzze blu notte dentro ad occhi color turchese, o quella mano, l'unica, calda e forte, a catturare la mia sensibilità. Saranno state le risate soffocate e silenziose durante gli esercizi di riabilitazione o l'impegno e la determinazione a farmi pensare che gli esseri umani sono capaci di autoguarirsi. Saranno stati i risultati raggiunti a farmi credere ai miracoli. O forse sarò stata io, a determinare il suo cambiamento, come dice sua moglie, e a farlo tornare a parlare, a dire "ce la posso fare", "sono bravo", semplicemente parlando il linguaggio del suo corpo, a lui stesso. Chiunque o qualunque cosa sia stata, oggi il mio paziente è un uomo migliore.
Lui, che della sua unica mano ne ha fatto il dono di un artista che usa pennelli, scalpellino e martello, ha realizzato opere d'arte sbaragliando la disabilità, imparato esercizi perineali che pochi si sognerebbero di riuscire a fare con un braccio solo, e realizzato se stesso. Scusate se è poco.
Metti un cuore fragile in un fisico possente, alto. Una capigliatura ribelle, ingrigita dal tempo, in un cervello acuto ed estremamente intelligente. Un braccio, uno solo, in un uomo semplice, accompagnato ed innamorato, ma sensibile.
Eccolo è lui, è il mio paziente nuovo, quello che non mi lascerà indenne da un turbine di emozioni che faranno trapelare un amore ancora più profondo per la mia professione.
Lui ritiene che il mio lavoro sia estremamente utile e particolare, per chi non riesce mai ad entrare in stretto contatto con ogni centimetro del proprio corpo, come lui. E' il tocco che diventa terapeutico, è lo sfioramento che fa prendere coscienza dei segnali offuscati dal tempo. Muscoli dimenticati, aneddoti svelati superando i confini di un pudore imperante.
L'ho capito subito quando l'ho incontrato che sarebbe stata un'altra lezione di vita la sua. Quella del mio paziente è la storia di un lutto indescrivibile.
"La perdita di un arto ti rende un uomo a metà e ti devi re-inventare, ripartire daccapo. E' come nascere due volte e scoprire solo dopo moltissimo tempo che i limiti fisici sono pochi, quelli psichici insormontabili. All'inizio vorresti morire. Se poi la vita ti riserva altri lutti ti chiedi come si possa riuscire ad abbandonare quel maledetto senso di colpa. Quello che ti si appiccica ai capelli come un grumo di catrame. E più lo tasti e cerchi di liberartene, più ti avvolge, ti annienta, non viene via".
Si adagia piano sul lettino cigolante il mio paziente. Rimuove la protesi obsoleta. Un braccio bionico rattoppato con lo scotch che ancora non gli hanno sostituito. Non ci sono i fondi. Le cinghie sulla spalla sono così strette che lasciano i solchi sulla pelle. Ovviamente all'inizio non è capace di grandi agilità e tende a scomporsi nell'affrontare passaggi intricati. Ma poi, lo vedo partire e dribblare le difficoltà mentre soluzioni alternative gli lambiscono la mente. Lo osservo con ipnotica attenzione e capto la sua anima, divorata da un sottile, febbricitante nervosismo. Respira. Piano. Respira. Piano. Il fiato gli ritma un tempo tutto particolare, come un orologio svizzero chiuso nella cassa di una pendola, come in una bolla di suono che si proietta dritto in ogni muscolo. Su e giù. Contrai, rilassa. Su e Giù. Contrai, rilassa. Ritmico, in un suono liquido, un rumore morbido, nessuna stonatura.
Giorno dopo giorno, conquista dopo conquista, il mio paziente prende possesso del suo corpo dall'immagine sfumata nella sua mente, e fa ricomparire il suo arto fantasma.
Con tacito rimprovero, corruga spesso le sopracciglia arcuate. Nasconde due bellissimi occhi dietro a palpebre pesanti e timide. A stento mi regala un sorriso, liberato solo da un'accozzaglia di battute rubate dal mio repertorio. Lo faccio per lui, ironicamente, che sblocca il diaframma con una risata stempiata e imbolsita e slega la pellicola opalescente che per troppo tempo lo ha sotterrato. E' miracolosa la sua trasformazione, ve l'assicuro, emozionante.
Saranno state quelle pagliuzze blu notte dentro ad occhi color turchese, o quella mano, l'unica, calda e forte, a catturare la mia sensibilità. Saranno state le risate soffocate e silenziose durante gli esercizi di riabilitazione o l'impegno e la determinazione a farmi pensare che gli esseri umani sono capaci di autoguarirsi. Saranno stati i risultati raggiunti a farmi credere ai miracoli. O forse sarò stata io, a determinare il suo cambiamento, come dice sua moglie, e a farlo tornare a parlare, a dire "ce la posso fare", "sono bravo", semplicemente parlando il linguaggio del suo corpo, a lui stesso. Chiunque o qualunque cosa sia stata, oggi il mio paziente è un uomo migliore.
Lui, che della sua unica mano ne ha fatto il dono di un artista che usa pennelli, scalpellino e martello, ha realizzato opere d'arte sbaragliando la disabilità, imparato esercizi perineali che pochi si sognerebbero di riuscire a fare con un braccio solo, e realizzato se stesso. Scusate se è poco.