La noia che fa tradire
(Ringrazio Daniele, per avermi consentito di scrivere la sua storia)
In quella casa era tutto quadrato, dritto e razionale, come la sua mente, il suo pensiero, lei.
Rigorosa e pragmatica, nulla era fuori posto, come se ogni cosa avesse un peso e occupasse uno spazio solo in quei pochi metri quadrati di stanza. Il quadro sopra al letto, il vaso nell'angolo, l'appendiabiti vicino alla porta, ma anche la chiave sul comò, un libro sempre aperto, la tenda raccolta da un nastro infiocchettato, la cannuccia nel bicchiere e l'asciugamano a bordo letto. Tutto così statico e nello stesso tempo così frenetico nei suoi occhi dalle pupille velocissime.
Lei, non usciva più di casa da tantissimo tempo e i miei pensieri si facevano sempre più pesanti. Anelavo di lasciarla. Non ne potevo più nè della sua malattia, nè di quello che era diventata per colpa della malattia.
Ma soffrivo di paralisi delle mie facoltà ed un senso di compassione per lei mi frenava.
Ero come murato vivo dentro me stesso, così come lo era lei, dentro quelle quattro mura.
La noia ci caratterizzava entrambi.
Era come stare sotto ad una coperta troppo corta. Per quanto la tiri per coprirti dal freddo, non ti soddisfa mai, e mai ti scalda.
Il mio stato d'animo vasto ed oscuro era per lei impenetrabile. Notava solo il mio volto fosco e scuro e non il mio impegno per risolverle i problemi di peso, di dolori, di gonfiore alla pancia, di ansie e di paure. Io c'ero ma per lei ero invisibile. Anche se la portavo dai migliori medici, da luminari specialisti della sua malattia, primari inestimabili, e anche se ero sempre pronto a caricarla in macchina e a volare in pronto soccorso, io non contavo nulla.
La noia piano piano, mi chiedeva di essere alleviata da sensazioni nuove e rare. Cominciai a guardarmi intorno, ad ammirare le altre donne, ad assentarmi sempre di più. No, non uscivo di casa, lo facevo tramite i social networks, i siti per singles, le chat. Ero sempre più insopportabile perchè sempre più nel mio mondo e meno nel suo. Non mi spiego nemmeno la mia sgarberia. Lei, così fragile e malata, aveva bisogno solo d'amore. Un amore opprimente e pesantemente angoscioso che io non le potevo più dare.
Cercava di compiacermi indossando vestiti molto attillati che rendevano ancor più smilza, rigida e burattinesca la sua persona piccola e rachitica. Mi appariva così a confronto delle donne delle hot chat. Aveva la passione per gli anelli massicci e barocchi che ballavano intorno a dita troppo magre. Il suo tono di rimprovero era davvero gracchiante a volte. Vibrava persino il collo nervoso mentre parlava. Non mi piaceva più. Anche il viso era tagliuzzato da rughe sottili e profonde.
Mi sono chiesto più volte come uscire da una storia simile senza sensi di colpa e non trovavo risposta.
Oggi, a distanza di un anno dall'inizio del suo calvario, posso solo indossare le mie scuse nei suoi confronti.
Mi guardo allo specchio e vedo un volto prosciugato e legnoso, gli occhi vitrei e un uomo indegno di starle accanto. L'ho tradita, una, due, trenta volte. E il mio volto si è fatto sempre più duro e immobile. Ho sconfitto la noia ma il senso di colpa non mi ha mai abbandonato.
Ho provato allora a guardarla con altri occhi. A coccolarla, a prendermi cura di lei. Ho pensato ai momenti belli e pieni, vissuti insieme. Alle lunghe chiaccherate notturne, alle carezze che cacciavano la paura, all'inizio della malattia. Alle promesse di non lasciarci mai.
Ho capito che l'amavo. Ho soffiato un'aria leggera tra i suoi pensieri pesanti, ho sporcato il suo volto di baci, diversi, migliori, profondi, più veri. Lei, tenera e dolce, così esile e insicura. Lei, fragile e delicata.
Aveva bisogno di me. Avevo bisogno di lei.
In quella casa era tutto quadrato, dritto e razionale, come la sua mente, il suo pensiero, lei.
Rigorosa e pragmatica, nulla era fuori posto, come se ogni cosa avesse un peso e occupasse uno spazio solo in quei pochi metri quadrati di stanza. Il quadro sopra al letto, il vaso nell'angolo, l'appendiabiti vicino alla porta, ma anche la chiave sul comò, un libro sempre aperto, la tenda raccolta da un nastro infiocchettato, la cannuccia nel bicchiere e l'asciugamano a bordo letto. Tutto così statico e nello stesso tempo così frenetico nei suoi occhi dalle pupille velocissime.
Lei, non usciva più di casa da tantissimo tempo e i miei pensieri si facevano sempre più pesanti. Anelavo di lasciarla. Non ne potevo più nè della sua malattia, nè di quello che era diventata per colpa della malattia.
Ma soffrivo di paralisi delle mie facoltà ed un senso di compassione per lei mi frenava.
Ero come murato vivo dentro me stesso, così come lo era lei, dentro quelle quattro mura.
La noia ci caratterizzava entrambi.
Era come stare sotto ad una coperta troppo corta. Per quanto la tiri per coprirti dal freddo, non ti soddisfa mai, e mai ti scalda.
Il mio stato d'animo vasto ed oscuro era per lei impenetrabile. Notava solo il mio volto fosco e scuro e non il mio impegno per risolverle i problemi di peso, di dolori, di gonfiore alla pancia, di ansie e di paure. Io c'ero ma per lei ero invisibile. Anche se la portavo dai migliori medici, da luminari specialisti della sua malattia, primari inestimabili, e anche se ero sempre pronto a caricarla in macchina e a volare in pronto soccorso, io non contavo nulla.
La noia piano piano, mi chiedeva di essere alleviata da sensazioni nuove e rare. Cominciai a guardarmi intorno, ad ammirare le altre donne, ad assentarmi sempre di più. No, non uscivo di casa, lo facevo tramite i social networks, i siti per singles, le chat. Ero sempre più insopportabile perchè sempre più nel mio mondo e meno nel suo. Non mi spiego nemmeno la mia sgarberia. Lei, così fragile e malata, aveva bisogno solo d'amore. Un amore opprimente e pesantemente angoscioso che io non le potevo più dare.
Cercava di compiacermi indossando vestiti molto attillati che rendevano ancor più smilza, rigida e burattinesca la sua persona piccola e rachitica. Mi appariva così a confronto delle donne delle hot chat. Aveva la passione per gli anelli massicci e barocchi che ballavano intorno a dita troppo magre. Il suo tono di rimprovero era davvero gracchiante a volte. Vibrava persino il collo nervoso mentre parlava. Non mi piaceva più. Anche il viso era tagliuzzato da rughe sottili e profonde.
Mi sono chiesto più volte come uscire da una storia simile senza sensi di colpa e non trovavo risposta.
Oggi, a distanza di un anno dall'inizio del suo calvario, posso solo indossare le mie scuse nei suoi confronti.
Mi guardo allo specchio e vedo un volto prosciugato e legnoso, gli occhi vitrei e un uomo indegno di starle accanto. L'ho tradita, una, due, trenta volte. E il mio volto si è fatto sempre più duro e immobile. Ho sconfitto la noia ma il senso di colpa non mi ha mai abbandonato.
Ho provato allora a guardarla con altri occhi. A coccolarla, a prendermi cura di lei. Ho pensato ai momenti belli e pieni, vissuti insieme. Alle lunghe chiaccherate notturne, alle carezze che cacciavano la paura, all'inizio della malattia. Alle promesse di non lasciarci mai.
Ho capito che l'amavo. Ho soffiato un'aria leggera tra i suoi pensieri pesanti, ho sporcato il suo volto di baci, diversi, migliori, profondi, più veri. Lei, tenera e dolce, così esile e insicura. Lei, fragile e delicata.
Aveva bisogno di me. Avevo bisogno di lei.