Fumavo
(Tratto dal racconto di una storia di vita, purtroppo vera. Quella del mio paziente, che mi ha consentito di scriverla)
Il rantolo si fa sempre più sonoro. Cerco di inspirare quanta più aria possibile ma il mio diaframma sembra cementato tra le coste, immobile.
Chiudo gli occhi un istante, pietrificato dal terrore che si impossessa di me, come quando un uragano arriva improvviso, travolgendo tutto. Al muro, il gorgoglio dell'acqua sul deflussore dell'ossigeno mi dà la tremenda e limpida illusione di trovarmi accanto ad un ruscello, in una foresta verdissima, dove le piante dalle foglie larghe come il mio letto, emettono ossigeno, vita. E clorofilla, vita. E umidità, vita.
E' un'illusione che mi catapulta velocemente alla realtà. Nessun ruscello, e nessuna foresta. Qui tutto bianco e grigio, asfissiante e solido.
Cerco di sedermi sollevando lo schienale del letto, così mi sembra di catturare qualche molecola in più. Baratterei un po' d'aria con una gamba, anzi con due, o con un braccio, un rene. Regalerei perfino gli occhi, una vescica, un pezzo di intestino per un polmone sano.
Non avrei mai pensato che morire di cancro ai polmoni fosse come trovarsi a venti metri sul fondo del mare senza bombole, o come un'ape in un vaso ermetico dal tappo sigillato. Mi sento come se avessi la testa chiusa in un sacco di plastica. Il torace è in un involucro di cellophane.
Allungo le braccia sulle spondine del letto annaspando alla ricerca del cordino. Annodato a bordo letto, mi aiuta a sollevarmi, come il triangolo che ho sopra la testa, per aggrapparmi inarcando la schiena all'indietro. Stirando questi o quei muscoli forse di aria ne entra di più. Provo. Niente da fare.
Non provo incredibilmente nessun dolore. Ma, ve l'assicuro, non c'è sofferenza più grande di questa. Se avessi lavorato all'Ilva, o tra l'amianto, in miniera tra il quarzo e il cromo, con l'arsenico o in mezzo allo smog del traffico, lo avrei accettato. Avrei avuto la possibilità di dare la colpa a qualcuno, scagliare una pietra contro una finestra, rompere un vetro, e il mio lamento avrebbe trovato voce, ed eco. Invece, ora, il senso di colpa mi sta divorando come un'aquila sulla preda morta. Il rimorso mi attanaglia. La mia spregevole scelta mi pugnala.
Che il fumo mi riducesse ad una pianta rinsecchita e ingiallita, boccheggiante e agonizzante, lo potevo solo immaginare, allontanando la foto nello stesso istante in cui mi catturava.
Quando prendevo quella "cicca" dal pacchetto, l'unico pensiero era accenderla in fretta e fumarla in poche aspirazioni, lunghe, decise, profonde, rilassarmi qualche minuto, dimenticare lo stress delle ore tutte uguali e tutte pesanti. Scialacquare il fumo, disperderlo nell'aria pulita, gustarlo. Sbattere la cenere sull'asfalto e schiacciare il mozzicone con la punta della scarpa. Finito.
Un rituale che srotolavo come un gomitolo dalla prima all'ultima sigaretta, e poi ancora, con il secondo pacchetto . Pochi gesti monotoni, dalla capacità di rendermi nello stesso tempo libero di scegliere e prigioniero dipendente e immobile. Sicuramente lontano dalla consapevolezza di un cancro terribile, dove non c'è sempre cura. Sicuramente lontano dal credere che sarebbe stata una morte senza dolore ma con la paura unica protagonista.
La tosse stizzosa mi fa sussultare. Piego la testa di lato, forse entra più aria nella mia bocca. Sono il panico e l'apprensione i miei nemici oggi. Biascico con voce impastata. Posso solo assumere del bromuro, per placarla e riuscire a chiudere le palpebre. Non ci sono sciroppi o unguenti magici, non c'è medicina. Dormire non so più cosa sia. Il mio corpo molle rimane sospeso nel tempo, perennemente seduto ad ogni ora del giorno e della notte. Da due mesi il raffreddore non mi lascia tregua e la febbricola mi rende debolissimo. Ho perso quasi dieci chili. Mi specchio nei tuoi occhiali da sole. Il collo oggi mi appare più gonfio di ieri e continua sul volto, facendomi sembrare grasso e lasciando trapelare la mia agitazione. E ad ogni accenno di respiro, le mie narici si aprono dilatandosi nella maschera d'ossigeno pompato a sei litri al minuto. E' la lenta e atroce distruzione di un uomo.
Non fumate, vi prego.
Il rantolo si fa sempre più sonoro. Cerco di inspirare quanta più aria possibile ma il mio diaframma sembra cementato tra le coste, immobile.
Chiudo gli occhi un istante, pietrificato dal terrore che si impossessa di me, come quando un uragano arriva improvviso, travolgendo tutto. Al muro, il gorgoglio dell'acqua sul deflussore dell'ossigeno mi dà la tremenda e limpida illusione di trovarmi accanto ad un ruscello, in una foresta verdissima, dove le piante dalle foglie larghe come il mio letto, emettono ossigeno, vita. E clorofilla, vita. E umidità, vita.
E' un'illusione che mi catapulta velocemente alla realtà. Nessun ruscello, e nessuna foresta. Qui tutto bianco e grigio, asfissiante e solido.
Cerco di sedermi sollevando lo schienale del letto, così mi sembra di catturare qualche molecola in più. Baratterei un po' d'aria con una gamba, anzi con due, o con un braccio, un rene. Regalerei perfino gli occhi, una vescica, un pezzo di intestino per un polmone sano.
Non avrei mai pensato che morire di cancro ai polmoni fosse come trovarsi a venti metri sul fondo del mare senza bombole, o come un'ape in un vaso ermetico dal tappo sigillato. Mi sento come se avessi la testa chiusa in un sacco di plastica. Il torace è in un involucro di cellophane.
Allungo le braccia sulle spondine del letto annaspando alla ricerca del cordino. Annodato a bordo letto, mi aiuta a sollevarmi, come il triangolo che ho sopra la testa, per aggrapparmi inarcando la schiena all'indietro. Stirando questi o quei muscoli forse di aria ne entra di più. Provo. Niente da fare.
Non provo incredibilmente nessun dolore. Ma, ve l'assicuro, non c'è sofferenza più grande di questa. Se avessi lavorato all'Ilva, o tra l'amianto, in miniera tra il quarzo e il cromo, con l'arsenico o in mezzo allo smog del traffico, lo avrei accettato. Avrei avuto la possibilità di dare la colpa a qualcuno, scagliare una pietra contro una finestra, rompere un vetro, e il mio lamento avrebbe trovato voce, ed eco. Invece, ora, il senso di colpa mi sta divorando come un'aquila sulla preda morta. Il rimorso mi attanaglia. La mia spregevole scelta mi pugnala.
Che il fumo mi riducesse ad una pianta rinsecchita e ingiallita, boccheggiante e agonizzante, lo potevo solo immaginare, allontanando la foto nello stesso istante in cui mi catturava.
Quando prendevo quella "cicca" dal pacchetto, l'unico pensiero era accenderla in fretta e fumarla in poche aspirazioni, lunghe, decise, profonde, rilassarmi qualche minuto, dimenticare lo stress delle ore tutte uguali e tutte pesanti. Scialacquare il fumo, disperderlo nell'aria pulita, gustarlo. Sbattere la cenere sull'asfalto e schiacciare il mozzicone con la punta della scarpa. Finito.
Un rituale che srotolavo come un gomitolo dalla prima all'ultima sigaretta, e poi ancora, con il secondo pacchetto . Pochi gesti monotoni, dalla capacità di rendermi nello stesso tempo libero di scegliere e prigioniero dipendente e immobile. Sicuramente lontano dalla consapevolezza di un cancro terribile, dove non c'è sempre cura. Sicuramente lontano dal credere che sarebbe stata una morte senza dolore ma con la paura unica protagonista.
La tosse stizzosa mi fa sussultare. Piego la testa di lato, forse entra più aria nella mia bocca. Sono il panico e l'apprensione i miei nemici oggi. Biascico con voce impastata. Posso solo assumere del bromuro, per placarla e riuscire a chiudere le palpebre. Non ci sono sciroppi o unguenti magici, non c'è medicina. Dormire non so più cosa sia. Il mio corpo molle rimane sospeso nel tempo, perennemente seduto ad ogni ora del giorno e della notte. Da due mesi il raffreddore non mi lascia tregua e la febbricola mi rende debolissimo. Ho perso quasi dieci chili. Mi specchio nei tuoi occhiali da sole. Il collo oggi mi appare più gonfio di ieri e continua sul volto, facendomi sembrare grasso e lasciando trapelare la mia agitazione. E ad ogni accenno di respiro, le mie narici si aprono dilatandosi nella maschera d'ossigeno pompato a sei litri al minuto. E' la lenta e atroce distruzione di un uomo.
Non fumate, vi prego.