Solo, sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole

Dedicato a quei due amici nebulizzati. Vi prego, fatevi sentire.

Sono solo le quattro del mattino e la natura risponde all'immobilità del cielo animandosi di suoni velati dall'alba. Un corteo trionfale di nuvolette rosse lascia l'obiettivo sul sole pallido. Rosso di mattina, la pioggia...si avvicina. Spero lavi giù la mia malinconia.
L'ineluttabile entropia emotiva si è impossessata di me oggi. Almeno non solo solo. IO, con le mie emozioni mi faccio compagnia.
Ero in una cucina a Manhattan quando sentii quei dolori lancinanti all'addome. Lavoravo da poco come cuoco e capii che quel giorno sarebbe stato l'ultimo in una cucina d'acciaio. Non avevo molti amici laggiù. Non ne ho mai coltivati perchè io il mondo me lo sono mangiato a pezzetti, con zaino in spalla, quattro stracci e autostop. Non mi ha mai spaventato la solitudine. Ho sempre tracciato diagrammi di esistenze possibili, con me e me e i miei squarci aperti sul finestrone del mondo.
Appena giunto in Usa, ero come un esitante e giovanissimo stelo in un deserto di erbacce. Poi, trovata la retta via, ho conosciuto anche la brava gente. Come Mario e Sergio, in Italia. Hanno organizzato loro il mio intervento chirurgico.
 L'operazione doveva essere eseguita urgentemente. Il cancro aveva invaso tutto il mio addome, congelando il mio bacino. "Frozen pelvic" lo chiamano qua.
Ma dal giorno del mio ricovero in ospedale Mario e Sergio non si sono più fatti vedere.
L'assenza del suono delle loro parole mi tormenta. Il loro abbandono mi spaventa. L'incomunicabilità di questo mondo ovattato mi spaventa. Senza i profumi delle terre esplorate, i sapori conosciuti, le culture vissute sono comunque un uomo ricco dentro, ma senza gli amici non sono più nessuno. La malattia ti spiazza, ti annienta, ti mette nell'angolo, ti rende come un granello di sabbia in una distesa desertica. Gli amici ti ridanno la vita e la speranza. Dove siete amici miei?
Nell'ospedale in cui sono stato ricoverato, ho conosciuto le assistenti sociali, che non solo solo coloro che portano via i bambini alle madri. Donne di una umanità sconvolgente sono riuscite a entrare nel mio mondo taciturno e chiuso offrendomi tutto il loro aiuto. Hanno provveduto a trovarmi una sistemazione in una struttura protetta. Con la pensione pagherò la quota e aspetterò la morte in silenzio. Sono solo. In prigione.
E' uno smarrirmi lento e progressivo questo male. Dove l'anima viene estrapolata dal corpo e, guardandolo dall'alto come se non fosse il mio, riconosce la solitudine di quel numero primo.
Vorrei essere e restare un essere umano fragile e non abbandonato dallo stesso mondo che mi ha tenuto compagnia.
Vorrei sentirmi una solida, tangibile e concreta sostanza. Materia con una densità, un cuore, amore.
Vorrei poter vivere ancora qualche attimo, con l'unica compagnia dei miei pesi sull'anima e con impressi i volti dei miei rari amici. Quelli felici però, che ridevano con me quando un piatto faceva schifo e lo si guarniva al meglio per farlo sembrare buonissimo. E quelli simpatici, con la battuta pronta, che ironizzavano perfino sulla mia malattia. E anche quelli un po' stronzi, perchè si sa, il mondo è vario ed è bello per questo. Ed io, solo, mi accontenterei di quel raggio di sole, uno, uno solo,  che, sul cuor della terra, mi sappia trafiggere.

Antonio è un mio splendido paziente. Lo potete vedere dalla foto in alto.

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