Forse ho sbagliato tutto: non dovevo fare l'infermiere
Il corridoio del reparto oggi mi sembra più lungo del solito. La luce penetrante del tramonto mette in risalto un muro ingrigito e pareti infeltrite. Anche l'eco del cigolio delle ruote del carrello mi infastidisce. Per l'ennesima volta. E' come se tutto mi piombasse addosso schiacciandomi come un masso. Tutto è terribilmente uguale, da vent'anni.
Qualche collega sostiene che l'ospedale rappresenta, in un certo senso, la casa di ognuno di noi. Qui si nasce, si passa, si vive, qualcuno ci lavora, instancabilmente come me, qualcun altro si ammala e ci soggiorna, e quasi tutti tornano per morire. Ma una casa dovrebbe essere il rifugio delle emozioni, la grotta delle sicurezze, il forziere dei valori. Qui invece, l'ospedale sembra spazzare via ogni credibile emozione, ignora il valore dei sentimenti irresoluti, crea illegittime incertezze.
Non mi sono mai chiesto come mi sentivo. Mi sono sempre limitato a lavorare, finché, ad un certo punto, il lavoro, come in una catena di montaggio, ha preso il posto delle mie spiacevoli sensazioni.
E così da vent'anni, vivo una vita piena fino all'orlo. I miei zoccoli scavano solchi in questa corsia, e braccia ormai annoiate spingono carrelli dall'odore di alcol e amuchina. Avranno indossato milioni di paia di guanti le mie mani, toccato migliaia di pazienti, miliardi di siringhe, centinaia di fialette.
Vent'anni fa, con il volto che sapeva di dopobarba, le unghie curate e la scriminatura dei capelli nel mezzo, ero fiero di indossare la divisa bianca. Ero fiero di essere diventato un infermiere.
Pensavo che fare l'infermiere significasse aiutare a salvare molte vite, sollevare dalla tristezza tanti volti, dare sostegno con il semplice appoggio di una mano sulla spalla. Ero convinto che lo studio mi sarebbe servito per collaborare con i medici, dicendo la mia, proponendo, contrastando, confrontandomi con la loro idea. Mi sarei sentito parte di un processo e indispensabile ma non sostituibile. Ognuno di noi, persona diversa, avrebbe dato qualcosa in più ai pazienti, qualcosa che ci appartiene, qualcosa di unico.
Pensavo, con la laurea, che essendo un Infermiere vero, come mi avevano inculcato a scuola, avrei avuto tempo per insegnare a coltivare il benessere delle persone, trattandole come esseri umani e non come numeri, consigliandole nelle scelte dubbiose.
E' così che avrei voluto essere.
Invece oggi sono qui a spingere carrelli di flebo e a quantificare drenaggi con il muso lungo, gli occhi infossati e il sorriso spento. Burn out.
Qui vige la regola del fare. Devi strappare terra ai burrascosi flutti se vuoi sopravvivere e non devi perdere tempo.
Non sederti a fare counseling con un paziente, stai perdendo tempo. Non fargli un massaggio rilassante prima di un intervento che gli demolirà mezzo corpo, stai perdendo tempo. E ti prego, non insegnargli una tecnica di rilassamento. Stai perdendo tempo. Non ti perdere a dare consigli e a spendere parole. Stai perdendo tempo.
Ho resistito vent'anni.
Forse ho sbagliato tutto. Non dovevo fare l'infermiere. Dovevo esserlo e basta. Devi volerlo e basta mi ripeto. Questo è il principio di tutto il mondo interessante che rappresenta questo lavoro. Diventare semplice e naturale, senza chiederti come stai adesso, senza farti catturare dai pensieri pregressi, è la svolta. Senti dentro di te una forza calda e compatta. Vai, mi dico. E sii un infermiere come hai sempre voluto, coerente. Ci sarebbe da chiedersi se l'incoerenza stia piuttosto nel voler rimanere sempre uguali, inscatolati.
E così ho fatto.
Il corridoio del reparto oggi mi sembra più corto del solito. La luce penetrante del tramonto colora di rosa le pareti e i soffitti e tutto sembra meno ingrigito e meno infeltrito. Anche l'eco del cigolio delle ruote del carrello non mi infastidisce più. Strano, è la prima volta. E' come se tutto mi scivolasse addosso senza macchiarmi. E' come se in un attimo, tutto non fosse più come prima.
Oggi non trascino gli zoccoli consunti. Ne ho comperato un nuovo paio. Ho indossato una divisa pulita e il dopobarba che sa di buono. Prendo le consegne e inizio il mio giro. Lungo, interminabile, sconfinato, ma ricco. Oggi mi porterò a casa gli abbracci ardenti di Nicola, il signore della prima stanza, i sorrisi placidi di Antonia, la nonnina della seconda, le lacrime di Gionny, i racconti passionali di Michele e la limpida rabbia di Simona, nell'ultima stanza. Catturerò le impertinenti
simpatie delle donne della "8", le pregevoli battute di Oscar, diabetico con il cancro, che ironizza sulla sua malattia, le lacrime amare della figlia di Nora, che non ce la fa più ad assistere suo padre morente. Finirò il giro in corsia più tardi dei miei colleghi, scriverò le consegne fuori orario e sarò stanchissimo. Ma oggi, ne sono sicuro, mi porterò a casa un colossale immenso tesoro. Perchè sono finalmente un Infermiere, in questo treno che mi piace e che si chiama mondo, non da triste passeggero ma da capo giocondo.
Qualche collega sostiene che l'ospedale rappresenta, in un certo senso, la casa di ognuno di noi. Qui si nasce, si passa, si vive, qualcuno ci lavora, instancabilmente come me, qualcun altro si ammala e ci soggiorna, e quasi tutti tornano per morire. Ma una casa dovrebbe essere il rifugio delle emozioni, la grotta delle sicurezze, il forziere dei valori. Qui invece, l'ospedale sembra spazzare via ogni credibile emozione, ignora il valore dei sentimenti irresoluti, crea illegittime incertezze.
Non mi sono mai chiesto come mi sentivo. Mi sono sempre limitato a lavorare, finché, ad un certo punto, il lavoro, come in una catena di montaggio, ha preso il posto delle mie spiacevoli sensazioni.
E così da vent'anni, vivo una vita piena fino all'orlo. I miei zoccoli scavano solchi in questa corsia, e braccia ormai annoiate spingono carrelli dall'odore di alcol e amuchina. Avranno indossato milioni di paia di guanti le mie mani, toccato migliaia di pazienti, miliardi di siringhe, centinaia di fialette.
Vent'anni fa, con il volto che sapeva di dopobarba, le unghie curate e la scriminatura dei capelli nel mezzo, ero fiero di indossare la divisa bianca. Ero fiero di essere diventato un infermiere.
Pensavo che fare l'infermiere significasse aiutare a salvare molte vite, sollevare dalla tristezza tanti volti, dare sostegno con il semplice appoggio di una mano sulla spalla. Ero convinto che lo studio mi sarebbe servito per collaborare con i medici, dicendo la mia, proponendo, contrastando, confrontandomi con la loro idea. Mi sarei sentito parte di un processo e indispensabile ma non sostituibile. Ognuno di noi, persona diversa, avrebbe dato qualcosa in più ai pazienti, qualcosa che ci appartiene, qualcosa di unico.
Pensavo, con la laurea, che essendo un Infermiere vero, come mi avevano inculcato a scuola, avrei avuto tempo per insegnare a coltivare il benessere delle persone, trattandole come esseri umani e non come numeri, consigliandole nelle scelte dubbiose.
E' così che avrei voluto essere.
Invece oggi sono qui a spingere carrelli di flebo e a quantificare drenaggi con il muso lungo, gli occhi infossati e il sorriso spento. Burn out.
Qui vige la regola del fare. Devi strappare terra ai burrascosi flutti se vuoi sopravvivere e non devi perdere tempo.
Non sederti a fare counseling con un paziente, stai perdendo tempo. Non fargli un massaggio rilassante prima di un intervento che gli demolirà mezzo corpo, stai perdendo tempo. E ti prego, non insegnargli una tecnica di rilassamento. Stai perdendo tempo. Non ti perdere a dare consigli e a spendere parole. Stai perdendo tempo.
Ho resistito vent'anni.
Forse ho sbagliato tutto. Non dovevo fare l'infermiere. Dovevo esserlo e basta. Devi volerlo e basta mi ripeto. Questo è il principio di tutto il mondo interessante che rappresenta questo lavoro. Diventare semplice e naturale, senza chiederti come stai adesso, senza farti catturare dai pensieri pregressi, è la svolta. Senti dentro di te una forza calda e compatta. Vai, mi dico. E sii un infermiere come hai sempre voluto, coerente. Ci sarebbe da chiedersi se l'incoerenza stia piuttosto nel voler rimanere sempre uguali, inscatolati.
E così ho fatto.
Il corridoio del reparto oggi mi sembra più corto del solito. La luce penetrante del tramonto colora di rosa le pareti e i soffitti e tutto sembra meno ingrigito e meno infeltrito. Anche l'eco del cigolio delle ruote del carrello non mi infastidisce più. Strano, è la prima volta. E' come se tutto mi scivolasse addosso senza macchiarmi. E' come se in un attimo, tutto non fosse più come prima.
Oggi non trascino gli zoccoli consunti. Ne ho comperato un nuovo paio. Ho indossato una divisa pulita e il dopobarba che sa di buono. Prendo le consegne e inizio il mio giro. Lungo, interminabile, sconfinato, ma ricco. Oggi mi porterò a casa gli abbracci ardenti di Nicola, il signore della prima stanza, i sorrisi placidi di Antonia, la nonnina della seconda, le lacrime di Gionny, i racconti passionali di Michele e la limpida rabbia di Simona, nell'ultima stanza. Catturerò le impertinenti