Vi racconto perchè, sono diventata un'infermiera
Dedicata a te, cara collega, che mi hai fatto emozionare.
L'ho sempre conservato in un cassetto del comò il portamonete in pelle rosso scarlatto. Era di mamma. Sgualcito e spellato mi ricorda quanti morsi gli ho dato il giorno in cui mamma era in sala operatoria ed io fuori ad aspettarla con papà. Avevo solo cinque anni. E l'Australia non mi sembrava così lontana come mi appare oggi.
Mamma nascondeva di tutto in quel portamonete. Gli scontrini della parrucchiera e quelli dei fiori che acquistava settimanalmente, quelli del pane e della macelleria del sabato pomeriggio. Li teneva tutti. Aveva le nostre foto divise negli scomparti, la mia e quella di papà, quella dei nonni dietro alle nostre, le monetine di ferro, lire, un biglietto del cinema, la medaglietta della Madonnina della salute nella taschina laterale, una carta argentata di una caramellina alla menta.
Sapeva che il mio passatempo era curiosare quell'oggetto misterioso, trafugare, cercare, guardarci dentro, contare le monete, e, prima di entrare in sala operatoria me lo consegnò.
Fu l'inizio di un calvario durato cinque anni.
Papà era alto. Ma anche curvo, arcigno, con delle folte sopracciglia bianche da sotto le quali scoccava occhiate cariche d'amore per me e per la mamma. Aveva i capelli grigi, tanti capelli, spartiti in mezzo, il mento sfuggente. Era il mio super papà. Pura bellezza cristallina.
Ne avevo dieci di anni quando assistevamo la sagoma esile della mamma in oncologia, mentre faceva la chemioterapia. Io le toglievo uno ad uno i capelli persi sul cuscino e lei mi rassicurava che saremmo andate presto a comperare una parrucca. Anzi due, una per me e una per lei. Ero felice ed emozionata quel giorno. Saremmo diventate "altre", un'emozione indescrivibile nella mia esistenza trasformata.
Ogni sabato si andava nel salone di bellezza di Mary Style, a Sidney, il Jean Louis David dei tempi nostri, a sistemare l'acconciatura alle parrucche. Ricordo come fosse ieri, l'ingresso odoroso di cera alla lavanda e di lacca alla rosa. La mia parrucca era bionda, la mettevo in casa per giocare con le amiche. Ma quella di mamma conteneva il peso che faceva la differenza. Lei aveva scelto i capelli neri, lunghi, sulle spalle, con la scriminatura nel mezzo.
Quando vomitava chiamava sempre me. Voleva che le portassi un semplice bicchiere d'acqua. Aveva una voce roca, trascinata su una gola secca in un corpo secco. Io mi sentivo impotente. Avrei voluto aiutarla a stare bene ma non ci riuscivo mai. E cresceva in me la sofferenza di quella impotenza. Aveva le caviglie ispessite e i fianchi gonfi come nuvole estive. Papà appariva sempre più ammaccato e arrugginito come un'armatura antica. Quando i medici hanno deciso che la mamma non l'avrebbero più ricoverata in ospedale, li ho odiati. Non capivo che papà aveva deciso di portarmela via, a morire in Italia, per non farmi soffrire. Li avrei visti partire per un viaggio, con i sorrisi stampati e mano nella mano. Sotto la luce gialla del marciapiede che non rischiarava altro che il loro stesso corpo unito, unico. Quello sarebbe stato il mio ultimo ricordo. Un ricordo di entrambi, perchè non vidi più nemmeno papà. Il destino ha voluto che morisse tre mesi dopo la morte di mamma.
Oggi vivo in Italia e sono diventata un'infermiera. Non l'ho scelto per un disegno del destino, nè perchè sia stata vittima delle circostanze. E non l'ho imparato da bambina.
Questo lavoro l'ho scelto io, da grande, per imparare ad assistere me stessa. Per insegnarmi a farcela. Per aiutarmi a sopravvivere. A prendermi cura di me. E come il rumore di un'onda gigante spazza il labirinto delle incertezze, io ho trovato l'uscita, la luce.
L'ho imparato dalle altre infermiere, dai medici e dai sanitari tutti, solo guardandoli, stando con loro, studiando con loro,
(Opera di Andrea Feo, figlio di quell'infermiera meravigliosa)
ed ora, lo insegno ai miei pazienti, magari alle madri con figlie piccole, di dieci anni, che mangiucchiano portafogli in pelle rossa e non possono sognare un futuro come tutti i bambini della loro età, spensierato e ricco, fatto di mamma e papà, ma solo un futuro in cui donarsi agli altri, che è, ve lo assicuro, la cosa più bella del mondo.
ed ora, lo insegno ai miei pazienti, magari alle madri con figlie piccole, di dieci anni, che mangiucchiano portafogli in pelle rossa e non possono sognare un futuro come tutti i bambini della loro età, spensierato e ricco, fatto di mamma e papà, ma solo un futuro in cui donarsi agli altri, che è, ve lo assicuro, la cosa più bella del mondo.