Cicca, latte caldo, tg e una carezza. Voglio morire così.
(Tratto da una storia tristissima. Ringrazio il figlio di Gigi per avermi consentito di raccontarla)
Ha il naso aquilino e le spalle ricurve il mio paziente sgangherato. Non c'è verso di fargli capire che fumare gli fa male e che il latte gli crea turbolenze intestinali eccessive.
Mi guarda con un sorriso sbilenco e gli occhi traballanti. Non ascolta ma sente. Ha il cancro, una stomia, una ferita addominale ancora un po' aperta e infetta, tre by pass coronarici e chi più ne ha più ne metta. Aspira nicotina e catrame e mi lancia un occhiolino scardinato. Forse non vede bene con l'occhio sinistro, tende allo strabismo.
"De qualcossa se deve pure morire" esclama in uno stridulo dialetto veneto. Sembra così sicuro di sè che quasi non ci credo sia nato nel 1930. Dice sia stata la guerra a temperarlo. "Quando il perchè (vivere) è forte", continua Gigi, "il come si trova sempre".
Ha la barba curata, e il sopracciglio folto che appena si intravede sotto alla coppola a quadretti.
Si crogiola nelle sue abitudini Gigi. Cicca senza filtro, latte caldo e tg e poi nanna, alle nove e mezza, da sempre, dopo una tenera carezza che fa al suo amato cane, il giretto intorno casa e una telefonata al figlio del piano di sopra. E' lui che lo chiama in realtà. Gigi non vuole rinunciare a nulla. Tutto deve scorrere come prima dell'intervento. Non ha rinunciato ai suoi salami caserecci, le scorpacciate di cioccolato e i funghi dei suoi boschi. Non ha rinunciato alla macchina, al traffico e al caffè del mattino, nè a quello del pomeriggio, macchiato caldo.
Ma chissà quali pensieri ingovernabili e selvaggi gli passano ora per la testa. Ora che ha percepito che la morte è imminente, ora che guardandosi la pancia che non guarisce prova anche il dolore fisico, ora che il fumo non gli lascia più tanto respiro.
Oggi Gigi ha l'aria contrita. Sono trascorsi venti giorni dalla dimissione e ventisette da quando gli ho disegnato la stomia sull'addome. Il suo è stato un ricovero lampo, incredibile la sua ripresa. Gli lancio un'occhiata obliqua, per centrare i miei occhi con i suoi. Sembra aggrovigliato nei suoi pensieri, come assente.
E' rigido nei movimenti, stanco, pesante come una sbarra di acciaio. Con fatica si adagia sul lettino. Respira come attraverso una maschera, con le guance che si muovono in dentro e in fuori, ritmiche. Ha la fronte diversa, piena di grinze e increspature, le occhiaie annerite, due solchi vicino al naso, gli occhi gialli, la pelle gialla.
Ed io, sento un dolore pesante e solido, che preme al centro del petto. No, non sto morendo, sto soffrendo per lui, per la consapevolezza che mi dimostra nel non aver scelto di finire così. Forse avrebbe preferito il cancro ai polmoni, una diarrea fulminante o un infarto massivo, un ictus o un incidente stradale, allo sconquasso del fegato. Quello non lo aveva calcolato.
Mi parla scoordinato ma tra una frase e l'altra comprendo un senso che mi lascia basita, sconcertata.
"Ogni volta che ho l'impressione di aver riacciuffato il ricordo di com'ero, esso scivola via, si dilegua nell'ombra, fuori dalla mia portata. Io cerco di pigliarlo, lo voglio, rivoglio la mia vita, quella di prima, con i miei vizi, le mie fatiche, i sacrifici"
Certo, Gigi non ha usato queste parole, ma vi assicuro che il senso era quello, e come una pioggia gelida e sferzante, nonostante mi sentissi sigillata come in una scatola di metallo, mi sono, per un attimo, lasciata inghiottire dalla sua deriva.
Gigi è scomparso due settimane fa, non per il cancro del retto, non per la vescica ceduta e infiltrata dal male, nè per i polmoni consunti o per il cuore imbizzarito. E' morto per colpa di un fegato che ha detto stop. L'unico organo che non aveva mai parlato. L'unico, che Gigi non aveva mai maltrattato.
Ha il naso aquilino e le spalle ricurve il mio paziente sgangherato. Non c'è verso di fargli capire che fumare gli fa male e che il latte gli crea turbolenze intestinali eccessive.
Mi guarda con un sorriso sbilenco e gli occhi traballanti. Non ascolta ma sente. Ha il cancro, una stomia, una ferita addominale ancora un po' aperta e infetta, tre by pass coronarici e chi più ne ha più ne metta. Aspira nicotina e catrame e mi lancia un occhiolino scardinato. Forse non vede bene con l'occhio sinistro, tende allo strabismo.
"De qualcossa se deve pure morire" esclama in uno stridulo dialetto veneto. Sembra così sicuro di sè che quasi non ci credo sia nato nel 1930. Dice sia stata la guerra a temperarlo. "Quando il perchè (vivere) è forte", continua Gigi, "il come si trova sempre".
Ha la barba curata, e il sopracciglio folto che appena si intravede sotto alla coppola a quadretti.
Si crogiola nelle sue abitudini Gigi. Cicca senza filtro, latte caldo e tg e poi nanna, alle nove e mezza, da sempre, dopo una tenera carezza che fa al suo amato cane, il giretto intorno casa e una telefonata al figlio del piano di sopra. E' lui che lo chiama in realtà. Gigi non vuole rinunciare a nulla. Tutto deve scorrere come prima dell'intervento. Non ha rinunciato ai suoi salami caserecci, le scorpacciate di cioccolato e i funghi dei suoi boschi. Non ha rinunciato alla macchina, al traffico e al caffè del mattino, nè a quello del pomeriggio, macchiato caldo.
Ma chissà quali pensieri ingovernabili e selvaggi gli passano ora per la testa. Ora che ha percepito che la morte è imminente, ora che guardandosi la pancia che non guarisce prova anche il dolore fisico, ora che il fumo non gli lascia più tanto respiro.
Oggi Gigi ha l'aria contrita. Sono trascorsi venti giorni dalla dimissione e ventisette da quando gli ho disegnato la stomia sull'addome. Il suo è stato un ricovero lampo, incredibile la sua ripresa. Gli lancio un'occhiata obliqua, per centrare i miei occhi con i suoi. Sembra aggrovigliato nei suoi pensieri, come assente.
E' rigido nei movimenti, stanco, pesante come una sbarra di acciaio. Con fatica si adagia sul lettino. Respira come attraverso una maschera, con le guance che si muovono in dentro e in fuori, ritmiche. Ha la fronte diversa, piena di grinze e increspature, le occhiaie annerite, due solchi vicino al naso, gli occhi gialli, la pelle gialla.
Ed io, sento un dolore pesante e solido, che preme al centro del petto. No, non sto morendo, sto soffrendo per lui, per la consapevolezza che mi dimostra nel non aver scelto di finire così. Forse avrebbe preferito il cancro ai polmoni, una diarrea fulminante o un infarto massivo, un ictus o un incidente stradale, allo sconquasso del fegato. Quello non lo aveva calcolato.
Mi parla scoordinato ma tra una frase e l'altra comprendo un senso che mi lascia basita, sconcertata.
"Ogni volta che ho l'impressione di aver riacciuffato il ricordo di com'ero, esso scivola via, si dilegua nell'ombra, fuori dalla mia portata. Io cerco di pigliarlo, lo voglio, rivoglio la mia vita, quella di prima, con i miei vizi, le mie fatiche, i sacrifici"
Certo, Gigi non ha usato queste parole, ma vi assicuro che il senso era quello, e come una pioggia gelida e sferzante, nonostante mi sentissi sigillata come in una scatola di metallo, mi sono, per un attimo, lasciata inghiottire dalla sua deriva.
Gigi è scomparso due settimane fa, non per il cancro del retto, non per la vescica ceduta e infiltrata dal male, nè per i polmoni consunti o per il cuore imbizzarito. E' morto per colpa di un fegato che ha detto stop. L'unico organo che non aveva mai parlato. L'unico, che Gigi non aveva mai maltrattato.