Aspettando quella busta: la risposta dell'esame istologico
Dedicata a te, che stai aspettando quella busta
Sono passati ventidue giorni e quattordici ore dal giorno dell'intervento e sto aspettando quella fatidica lettera, sulla busta gialla, quella con la temibile risposta del mio esame istologico, quella che stabilirà quanto mi resta da vivere.
E' un bivio in cui l'essere umano si trova di spalle, sospeso tra il tutto e il nulla. Se non hai provato la forza di un uragano, non puoi capire.
Rimbombano nella mia testa le fragorose parole del medico: "Una ventina di giorni e saprà l'esito dell'esame istologico". Come attorciglia la lingua questa parola.
Il vialetto di casa mia che porta alla piccola cassetta della posta mostra i solchi dei miei ripetuti passi quotidiani. La controllo con un'ansia nevrotica che si è impossessata di me come un demone inferocito. A tratti lascia spazio ai dubbi: e se la spedissero tramite raccomandata? E se il postino non avesse suonato due volte e non avesse lasciato la busta? E se invece di spedirmela mi chiamassero in ospedale per il verdetto vis a vis con il primario? E se mi avessero telefonato e non mi fossi accorto? Magari ero fuori, non ho sentito il telefono, era scarico, era rotto.
Controllo tutte le telefonate in entrata dell'ultima settimana, quelle perse e quelle senza risposta, la lista in uscita e la lista in entrata. Nessuna chiamata dall'ospedale, niente. Ri-conto i giorni sul calendario e sulle dita delle mani, come un bambino, alla ricerca dell'errore che non trovo. L'attesa è snervante e caustica. Mi sento come in un campo di calcio, dove tutti giocano tranne io. Nessuno mi passa il pallone, i giocatori mi schivano, sono invisibile, in centro campo, in uno stato di completa e tormentata confusione dove i pensieri sfuggono alla realtà.
Mi sono chiesto molte volte cosa farei se mi dicessero che mi resta poco da vivere. Non ho molti dubbi.
Non farei nulla. Assolutamente nulla. Nessuna cura, nessuna chemioterapia sperimentale, nessun intervento palliativo, nessun desiderio da realizzare o viaggio da fare. Non spenderei tutto il mio patrimonio e non sfiderei la fortuna. Che senso avrebbe? La morte sarebbe l'unica solida e tangibile realtà che mi apparterrebbe. La strada che mi porterebbe solamente sotto terra, se vuoi con il cielo cristallino e con il vento leggero che dondola i ciuffi d'erba, ma chi se ne frega, io sarei lì, con le mani in mano, a far salire il calore dal terreno, mentre l'orizzonte si illumina di bagliori sgargianti arancioni e gialli che non vedrei mai più. Mentre tutto scorre tranne io.
Squilla il telefono. E' l'ospedale. Rispondo a monosillabi. Devo recarmi oggi pomeriggio dal primario, che mi comunicherà il verdetto. Ecco lo sapevo. Morirò presto. Altrimenti forse me l'avrebbero spedita quella maledetta lettera.
Arrivo in ospedale in anticipo. Mai la strada verso la città mi è sembrata così lunga, umiliante questa pena.
La busta giace aperta sulla scrivania. La legge lui.
"E un brutto cancro" mi dice. Sprofondo. Gelo. Piango. Mi manca la terra sotto ai piedi e l'aria per respirare. Mi sembra di soffocare e i conati di vomito si susseguono senza pietà facendomi provare l'amaro accenno della chemioterapia. Stringo la mano della mia compagna così forte da farle male.
Non avrei vissuto a lungo. Tutto qua. Quarantotto anni, fine. Quarantotto scriveranno nella mia epigrafe perchè non arriverò ai quarantanove.
"Ci sarebbero delle terapie da fare, radio, chemio monitorando la malattia..., ci pensi..., potrebbe farcela".
Po-treb-be? E chi crederebbe ad uno stupido condizionale ? Ai se e ai ma, al non so se domani...
Ci ho pensato una notte intera mentre quella pagina ciondolava inerte tra le mie dita e le parole facevano deragliare le mie certezze. Avrei voluto sparpagliare i dubbi altrove. Mi sono guardato allo specchio con gli occhi inquieti mentre capivo cosa volevo dalla vita. Vivere ancora. Lo specchio non mi restituiva l'immagine di un corpo sconclusionato in un imballaggio ridicolo. Tutt'altro.
Ho deciso di cambiare forma, plasmando il mio io alla circostanza. Ora dovevo lottare, contro un mostro che stava in un corpo sbagliato. Godermi ogni istante di ogni giorno con la mia famiglia e cercare altri in viaggio come me. Avere anche delle ambizioni frivole. Ve l'assicuro, insieme si può vincere.
Dedicata a te, che stai lottando con tutte le tue forze, e che la forza la regali incredibilmente a tua moglie, ai tuoi figli, ai tuoi amici e a chi ti cura. Contro ogni aspettativa.
Sono passati ventidue giorni e quattordici ore dal giorno dell'intervento e sto aspettando quella fatidica lettera, sulla busta gialla, quella con la temibile risposta del mio esame istologico, quella che stabilirà quanto mi resta da vivere.
E' un bivio in cui l'essere umano si trova di spalle, sospeso tra il tutto e il nulla. Se non hai provato la forza di un uragano, non puoi capire.
Rimbombano nella mia testa le fragorose parole del medico: "Una ventina di giorni e saprà l'esito dell'esame istologico". Come attorciglia la lingua questa parola.
Il vialetto di casa mia che porta alla piccola cassetta della posta mostra i solchi dei miei ripetuti passi quotidiani. La controllo con un'ansia nevrotica che si è impossessata di me come un demone inferocito. A tratti lascia spazio ai dubbi: e se la spedissero tramite raccomandata? E se il postino non avesse suonato due volte e non avesse lasciato la busta? E se invece di spedirmela mi chiamassero in ospedale per il verdetto vis a vis con il primario? E se mi avessero telefonato e non mi fossi accorto? Magari ero fuori, non ho sentito il telefono, era scarico, era rotto.
Controllo tutte le telefonate in entrata dell'ultima settimana, quelle perse e quelle senza risposta, la lista in uscita e la lista in entrata. Nessuna chiamata dall'ospedale, niente. Ri-conto i giorni sul calendario e sulle dita delle mani, come un bambino, alla ricerca dell'errore che non trovo. L'attesa è snervante e caustica. Mi sento come in un campo di calcio, dove tutti giocano tranne io. Nessuno mi passa il pallone, i giocatori mi schivano, sono invisibile, in centro campo, in uno stato di completa e tormentata confusione dove i pensieri sfuggono alla realtà.
Mi sono chiesto molte volte cosa farei se mi dicessero che mi resta poco da vivere. Non ho molti dubbi.
Non farei nulla. Assolutamente nulla. Nessuna cura, nessuna chemioterapia sperimentale, nessun intervento palliativo, nessun desiderio da realizzare o viaggio da fare. Non spenderei tutto il mio patrimonio e non sfiderei la fortuna. Che senso avrebbe? La morte sarebbe l'unica solida e tangibile realtà che mi apparterrebbe. La strada che mi porterebbe solamente sotto terra, se vuoi con il cielo cristallino e con il vento leggero che dondola i ciuffi d'erba, ma chi se ne frega, io sarei lì, con le mani in mano, a far salire il calore dal terreno, mentre l'orizzonte si illumina di bagliori sgargianti arancioni e gialli che non vedrei mai più. Mentre tutto scorre tranne io.
Squilla il telefono. E' l'ospedale. Rispondo a monosillabi. Devo recarmi oggi pomeriggio dal primario, che mi comunicherà il verdetto. Ecco lo sapevo. Morirò presto. Altrimenti forse me l'avrebbero spedita quella maledetta lettera.
Arrivo in ospedale in anticipo. Mai la strada verso la città mi è sembrata così lunga, umiliante questa pena.
La busta giace aperta sulla scrivania. La legge lui.
"E un brutto cancro" mi dice. Sprofondo. Gelo. Piango. Mi manca la terra sotto ai piedi e l'aria per respirare. Mi sembra di soffocare e i conati di vomito si susseguono senza pietà facendomi provare l'amaro accenno della chemioterapia. Stringo la mano della mia compagna così forte da farle male.
Non avrei vissuto a lungo. Tutto qua. Quarantotto anni, fine. Quarantotto scriveranno nella mia epigrafe perchè non arriverò ai quarantanove.
"Ci sarebbero delle terapie da fare, radio, chemio monitorando la malattia..., ci pensi..., potrebbe farcela".
Po-treb-be? E chi crederebbe ad uno stupido condizionale ? Ai se e ai ma, al non so se domani...
Ci ho pensato una notte intera mentre quella pagina ciondolava inerte tra le mie dita e le parole facevano deragliare le mie certezze. Avrei voluto sparpagliare i dubbi altrove. Mi sono guardato allo specchio con gli occhi inquieti mentre capivo cosa volevo dalla vita. Vivere ancora. Lo specchio non mi restituiva l'immagine di un corpo sconclusionato in un imballaggio ridicolo. Tutt'altro.
Ho deciso di cambiare forma, plasmando il mio io alla circostanza. Ora dovevo lottare, contro un mostro che stava in un corpo sbagliato. Godermi ogni istante di ogni giorno con la mia famiglia e cercare altri in viaggio come me. Avere anche delle ambizioni frivole. Ve l'assicuro, insieme si può vincere.
Dedicata a te, che stai lottando con tutte le tue forze, e che la forza la regali incredibilmente a tua moglie, ai tuoi figli, ai tuoi amici e a chi ti cura. Contro ogni aspettativa.