Cara, dolce, amata pensione
Il racconto e' tratto da un fatto realmente accaduto. Lo dedico a lui, che oggi non c'è più.
Mi immaginavo, nel giorno in cui avrei ricevuto quella lettera, seduto sul muretto di casa con mia sorella e i miei vicini di casa, a brindare con prosecco, patatine e olive verdi. Quando sulla busta leggi INPS, e finalmente scopri che la tua vita lavorativa e' terminata ed inizia quella che dovrebbe essere la favolosa da pensionato, il tuo cervello comincia a farneticare. Pensi a quello che potrai fare l'indomani mattina, agli hobby che finalmente riuscirai a coltivare, ai viaggi che hai ancora da fare e agli amici con cui potrai uscire. Oppure pensi ai balconi di casa da sistemare, al prato da rifare, a quella macchina da verniciare, a lavorare ancora insomma, ma con la leggerezza di chi vuole godersi ogni giorno di ogni mese di ogni anno di vita prima della morte.
Me lo immaginavo così, quel giorno. Invece il destino ha voluto che il giorno prima ricevessi il referto istologico del mio polipo al retto. Cancro. Intervento previsto la settimana seguente.
Perché ? Maledizione perché ???
Non ho forse sudato abbastanza, pagato tutte le mie tasse, lavorato dodici ore al giorno in quella fornace che ha abbrustolito ogni mio singolo capello, oltre che tutte le punte delle mie dita, ridotto il mio corpo ad un fruscello secco, non ho dato forse abbastanza a quell'altoforno che rubava il respiro per il caldo asfissiante, fatto dormire la notte solo a settimane alterne per i turni massacranti, e fatto si che contassi ogni ora di ogni giorno mancante alla mia pensione?
Perché ?
Ho affrontato l'intervento, la stomia, il sacchetto sulla pancia, i drenaggi, la chemioterapia e trentacinque sedute di radioterapia con il sorriso. Io volevo vivere. È' stato come attraversare un tratto tortuoso sconnesso, sotto la vegetazione inselvatichita. Un sentiero zigzagante. Un campo irradiato da muta ostilità . Io l'ho percorso.
La lettera dell'INPS, giaceva immobile sulla credenza. Era appoggiata sulla busta scorticata.
Non avevo avuto il coraggio di usare il tagliacarte d'argento per aprirla. Quell'arnese mi ricordava il terribile gesto del mio amico, due settimane fa, per il fallimento della sua ditta.
Intanto, sul mio conto, si materializzavano potenziali sogni da realizzare: si accreditavano inutili e sterili soldi tanto sudati.
Un giorno, decisi che avrei dipinto tutti i balconi scrostati e costruito il mobiletto per le scarpe. Martellavo i chiodi sulle assi di legno di pino. Profumava di resina e di bosco. Pensavo alla libertà, e anche alla morte. Mi vedevo nella cassa rivestita di raso viola, vestito di bianco. Mia sorella piangente e i miei vicini di casa, sopra di me, con facce funeree. Le uniche persone che nella vita hanno imparato a conoscermi veramente. Cacciavo quell'idea atroce, avevo paura. Niente fa più paura della paura stessa.
Anche quel giorno ero lì' seduto. Bubi, il mio cane, mi scaldava le caviglie, steso sui miei piedi. È' come l'anima, che trema davanti al vuoto, ed ha bisogno di un contatto ad ogni costo.
Cominciai a sentire un forte dolore alla pancia. Forse avevo mangiato troppo, forse preso freddo, forse bevuto l'acqua ghiacciata, o forse, il male si stava impossessando del mio corpo, e fui preso dal terrore. Avevo terminato le terapie da due settimane. Entrai in casa e presi quella busta, quella della fatidica lettera di pensionamento. Avevo millantato di scendere a compromessi con il mio destino. Mi sarei comportato bene anche da malato, avrei preso le medicine e i veleni anti cancro. La morfina per i dolori e le flebo idratanti. Sventolavo quella lettera tra le mani, la passavo tra le dita come una carta da gioco. Piansi. Ed era la prima volta che il mio viso conosceva l'amarezza delle lacrime.
Poi, presi la scala più alta che avevo, la appoggiai al granaio. E su, sul cornicione smozzicato. Volevo far correre gli occhi a briglia sciolta, insieme ai pensieri.
Era strano quel giorno, ero vestito di bianco.
Salii sullo sgabello, la busta in mano, il mal di pancia.
Il cappio strinse il mio collo senza farmi provare dolore.
E con un gesto rapidissimo, tutto finì' in quel nero istante.
E mentre la busta volava giù, in mille pezzetti di carta, che turbinavano in mulinelli impazziti, gli occhi erano stravolti dalla meraviglia.
G.P. Si è tolto la vita quindici giorni fa. Era un mio paziente.
Mi immaginavo, nel giorno in cui avrei ricevuto quella lettera, seduto sul muretto di casa con mia sorella e i miei vicini di casa, a brindare con prosecco, patatine e olive verdi. Quando sulla busta leggi INPS, e finalmente scopri che la tua vita lavorativa e' terminata ed inizia quella che dovrebbe essere la favolosa da pensionato, il tuo cervello comincia a farneticare. Pensi a quello che potrai fare l'indomani mattina, agli hobby che finalmente riuscirai a coltivare, ai viaggi che hai ancora da fare e agli amici con cui potrai uscire. Oppure pensi ai balconi di casa da sistemare, al prato da rifare, a quella macchina da verniciare, a lavorare ancora insomma, ma con la leggerezza di chi vuole godersi ogni giorno di ogni mese di ogni anno di vita prima della morte.
Me lo immaginavo così, quel giorno. Invece il destino ha voluto che il giorno prima ricevessi il referto istologico del mio polipo al retto. Cancro. Intervento previsto la settimana seguente.
Perché ? Maledizione perché ???
Non ho forse sudato abbastanza, pagato tutte le mie tasse, lavorato dodici ore al giorno in quella fornace che ha abbrustolito ogni mio singolo capello, oltre che tutte le punte delle mie dita, ridotto il mio corpo ad un fruscello secco, non ho dato forse abbastanza a quell'altoforno che rubava il respiro per il caldo asfissiante, fatto dormire la notte solo a settimane alterne per i turni massacranti, e fatto si che contassi ogni ora di ogni giorno mancante alla mia pensione?
Perché ?
Ho affrontato l'intervento, la stomia, il sacchetto sulla pancia, i drenaggi, la chemioterapia e trentacinque sedute di radioterapia con il sorriso. Io volevo vivere. È' stato come attraversare un tratto tortuoso sconnesso, sotto la vegetazione inselvatichita. Un sentiero zigzagante. Un campo irradiato da muta ostilità . Io l'ho percorso.
La lettera dell'INPS, giaceva immobile sulla credenza. Era appoggiata sulla busta scorticata.
Non avevo avuto il coraggio di usare il tagliacarte d'argento per aprirla. Quell'arnese mi ricordava il terribile gesto del mio amico, due settimane fa, per il fallimento della sua ditta.
Intanto, sul mio conto, si materializzavano potenziali sogni da realizzare: si accreditavano inutili e sterili soldi tanto sudati.
Un giorno, decisi che avrei dipinto tutti i balconi scrostati e costruito il mobiletto per le scarpe. Martellavo i chiodi sulle assi di legno di pino. Profumava di resina e di bosco. Pensavo alla libertà, e anche alla morte. Mi vedevo nella cassa rivestita di raso viola, vestito di bianco. Mia sorella piangente e i miei vicini di casa, sopra di me, con facce funeree. Le uniche persone che nella vita hanno imparato a conoscermi veramente. Cacciavo quell'idea atroce, avevo paura. Niente fa più paura della paura stessa.
Anche quel giorno ero lì' seduto. Bubi, il mio cane, mi scaldava le caviglie, steso sui miei piedi. È' come l'anima, che trema davanti al vuoto, ed ha bisogno di un contatto ad ogni costo.
Cominciai a sentire un forte dolore alla pancia. Forse avevo mangiato troppo, forse preso freddo, forse bevuto l'acqua ghiacciata, o forse, il male si stava impossessando del mio corpo, e fui preso dal terrore. Avevo terminato le terapie da due settimane. Entrai in casa e presi quella busta, quella della fatidica lettera di pensionamento. Avevo millantato di scendere a compromessi con il mio destino. Mi sarei comportato bene anche da malato, avrei preso le medicine e i veleni anti cancro. La morfina per i dolori e le flebo idratanti. Sventolavo quella lettera tra le mani, la passavo tra le dita come una carta da gioco. Piansi. Ed era la prima volta che il mio viso conosceva l'amarezza delle lacrime.
Poi, presi la scala più alta che avevo, la appoggiai al granaio. E su, sul cornicione smozzicato. Volevo far correre gli occhi a briglia sciolta, insieme ai pensieri.
Era strano quel giorno, ero vestito di bianco.
Salii sullo sgabello, la busta in mano, il mal di pancia.
Il cappio strinse il mio collo senza farmi provare dolore.
E con un gesto rapidissimo, tutto finì' in quel nero istante.
E mentre la busta volava giù, in mille pezzetti di carta, che turbinavano in mulinelli impazziti, gli occhi erano stravolti dalla meraviglia.
G.P. Si è tolto la vita quindici giorni fa. Era un mio paziente.