La mia adolescenza scolorita

(Tratta da una storia purtroppo vera: la sofferenza di un piccolo genio.
Ringrazio la mia piccola paziente per aver voluto aiutare, con questo racconto, tante amiche nelle stesse condizioni)


Ho solo tredici anni ma pesano come un macigno come se fossero trenta. Lo penso veramente che sono sfortunata, tutte le volte che guardo mia madre negli occhi stanchi, il volto tirato e il corpo ossuto. Sono come lei.
Combatto da sei anni contro la rettocolite ulcerosa che mi ha obbligato  ad accettare una stomia definitiva, un sacchetto sulla pancia, dove le mie feci si raccolgono. Lo so che non dovrei vergognarmi, che molti postano anche dei selfie sui social networks della loro stomia, ma io non ci riuscirò mai, la odio. 
Nascondo il mio viso plastico, ligneo, tra le mani. Accendo il cellulare, esagero con le smorfie mentre invio su whatsapp alcune foto alle mie amiche. Mi restituiscono qualche dito medio, qualche insulto, così, gratuito, per scherzare. Vedono in me la biondina sfigata dalle treccine sempre in ordine e non l'adolescente imprigionata in questa vita di merda.
Spiaccico il naso sul vetro della finestra della mia stanza. Butto lo sguardo oltre la recinzione.  La mamma di una mia amica laggiù, lavoratrice incallita, mamma infaticabile, si ritrova in una sedia a rotelle da pochi mesi. La mia vicina di casa, quella con il fisico tonico e gli occhi da gatta, combatte contro il cancro al seno. Il ragazzo del piano di sotto, quello dal sorriso incerto, dalle movenze nervose e pieno di tatuaggi declamatori ha la leucemia. Ed io mi lamento. Il padre di Giulio, là nella casa senza tetto,  ha lo sguardo perennemente grigio, dopo che la moglie è scappata con l'amico di suo figlio. La zia di Paola, quella della villetta rossa, è un'obesa che si rimpinza di agnellini arrosto al kebab sottocasa tutte le sere, sono appetibili come un tortino allo sterco di gorilla, cammina come se dovesse trasportare quintali di grasso e respira a stento, ha il diabete ma sorride a tutti. Lo chef del ristorante in Via Giusti, recita sempre il menù con espressioni estatiche, sembra un poeta d'altri tempi, peccato che la balbuzie sia il suo grande limite. E per alcune persone, come me, la vita è uno slalom tra gli ospedali collezionando ricoveri.
Mi stendo nel letto e osservo le mie gambe scalcianti. Sono due, vive, dinamiche, lunghe, e non è scontato averle. Mi pettino, magari la ragazza con gli occhi di gatto potesse. La chemioterapia glieli ha rubati tutti. Ed ora porta il peso di una parrucca che le ricorda cosa sia la femminilità. Voglio una coda di cavallo che ondeggi bionda sulle mie spalle, voglio che lo specchio mi restituisca un'immagine quieta. Voglio cancellare questo sguardo vago, questa espressione indecifrabile. Abbasso gli occhi. Canto e non balbetto. Mi trucco, ho le guance rosee, sane. Sto bene.
Io sto bene.
Le mie amiche mi considerano un piccolo genio. Dicono che conosca più vocaboli di un prof di letteratura e che i numeri stiano nel mio cervello come gli sms nei loro cellulari. Io, con sovrana indifferenza, faccio finta di nulla e sbaglio appositamente i compiti di matematica per non dare loro ragione. Mi hanno detto che ho un QI superiore alla media e l'intelligenza dovrebbe servirmi a trovare le soluzioni per cavarmela nella vita. Com'è che non le trovo ? 
Ma improvvisamente mi ritrovo con un sorriso stupidamente allegro. Fa a pugni con lo sguardo tormentato dei miei occhi.
Dove è finita la mia adolescenza ? Sembra scolorita, incerottata nella placca adesiva che mi costringe ad abiti larghi e voluminose t-shirt. Nemmeno Justin Bieber, nel poster trovato tra i cassetti disordinati della mia scrivania, mi ricorda la leggerezza di questi anni che vorrei insaponare e lavare via. Pesano come l'acciaio.
Decido di uscire a fare una passeggiata.
Oggi il cielo sembra quasi piangere. Lo dice anche Noemi nella canzone "L'amore è eternit". E' la mia cantante preferita. 
Dall'asfalto si alzano ondate di calore mentre sotto la luce ramata del tramonto ficco la testa fra le nuvole. E' stupendo. Permette di incontrare solo gente che sa volare, come me. Siamo in tanti a soffrire e in tanti a saper volare. Forse.
Arrotolo le maniche ai gomiti e, avara di parole, resto in silenzio. Mi accarezzo la guancia, il tocco ruvido delle dita mi ricorda quanto mi manca una vita normale. 
Poi sfilo dalla tasca il cellulare. Ho un messaggio su facebook. Martina mi scrive "Ciao stronza muoviti a rispondere o corri da me, tu che puoi". Mi vuole bene. Lei, con l'artrite reumatoide non può correre. Apro le foto, giro l'obiettivo verso di me, mi scatto un selfie, il primo della mia vita con la stomia. Sollevo anche la maglietta e, seduta sul tronco di un albero segato, riprendo il mio volto e la pancia, sfiorata dalla collana d'ambra che mamma mi regalò a sei anni. Lo scorcio orientale offre un finestrone apribile sul tramonto, voglio essere protagonista di quel cielo. Scatto. E con un coraggio mai trovato, la posto su facebook. La voglio colorata, luminosa, come la mia adolescenza ritrovata.


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