Impalpabile Segreto


(Il racconto sarà, come da espressa richiesta della protagonista, in prima persona. I nomi sono di pura fantasia).

Avrei sempre voluto chiamarmi Chiara. Lui mi chiamava kikka e lo scriveva sempre cosi, con tre “kappa”. A me piaceva quel nomignolo e non lo corressi mai.
Lo conobbi quando facevo la prima liceo. Veniva a prendere la mia compagna di banco dopo scuola, mentre io dovevo tornare a casa in bici.
Era un padre fantastico, mi raccontava la mia inseparabile compagna quando si studiava insieme, "mitico", diceva.
Io ero al liceo per ovvi motivi, avrei studiato medicina all’università, il liceo sarebbe stato un ottimo trampolino. Sonia, la mia compagna invece, era stata un po’ costretta a continuare gli studi dopo le medie dalle vicissitudini familiari. Per motivi di salute si era trovata spesso ad assistere i suoi genitori all’ospedale e aveva deciso che sarebbe diventata un’infermiera. Dopo la morte di sua madre per tumore dell’utero si trovava con un padre stomizzato per una rettocolite ulcerosa evoluta in cancro del colon. L’intervento era andato bene e la stomia gli consentiva una vita normalissima.
Quando mi recavo a casa sua a studiare osservavo accuratamente come Sonia si prendeva cura di suo padre. Gli cambiava il sacchetto sulla pancia, lo lavava come si lava il culetto ad un bambino, lo medicava e poi gli riattaccava una placca adesiva con un nuovo sacchetto. Lo faceva a giorni alterni, sempre lei, sempre alla stessa ora.
Erano feci quelle dentro al sacchetto, lo capii subito e mi feci spiegare i motivi.
Lui però, non guardava, girava il volto dall’altra parte, piegava la testa all'indietro, teneva un fazzoletto al mentolo sul naso, ma della mia presenza non si vergognava mai; forse perché sapeva che un domani lo avrei curato io, da medico, o forse perché ero come una seconda figlia ormai.
Si vedeva che Sonia era provata da queste azioni, lei sì che si sentiva pervasa dal pudore e dall’indiscutibile amaro dubbio del perché suo padre non lo facesse da solo. Questi cambi a giorni alterni la costringevano tristemente a rinunciare alle gite, alle uscite in biblioteca, ai ritrovi alla gelateria del centro con gli altri compagni di classe.
Un pomeriggio, in quinta liceo, ricordo che avevo appena compiuto diciannove anni, Sonia era a letto con il febbrone e mi chiamò a casa sua. Pensavo fosse per interrogarla, dato che gli esami erano imminenti e mi precipitai. Avrebbe fatto comodo anche a me ripassare.
Invece no.
Sonia voleva che cambiassi il sacchetto a suo padre, lei non riusciva a stare in piedi. Lui piangeva e si mortificava ripetendosi :“come sono ridotto”.
Per me era la prima volta da sola.
Tuttavia lo avevo visto fare centinaia di volte a Sonia e non ero per niente preoccupata.
Non avevo mai notato però, la fragilità di quell'uomo.
Ebbi un flash sui miei genitori, così, a confronto.
Mio padre lavorava per una multinazionale ed era un instancabile duro stacanovista. Non aveva mai versato una lacrima nemmeno di gioia. Mia madre, un’insegnante di lettere, era perennemente assente, ma, capofamiglia in tutti i sensi, bigotta e con un senso del pudore d'altri tempi. Tra i miei ricordi non riesco a pescare immagini del corpo seminudo di mia madre nè di mio padre.
Ora la mia visione familiare era completamente stravolta. Io, che non ero nessuno, avrei dovuto fare un “bidet” pulendo un "ano artificiale" al padre della mia migliore amica.
Fu però quello, il momento fatale per noi. Scintilla fu.

“Tranquilla Sonia, ci penso io”, le urlai giù dalla scala affinché mi sentisse.
“Kikka… “, la voce di quell’uomo era ancora più dolce.
“Giovanni…”.. era la prima volta che gli davo del tu. “Ecco fatto, stai tranquillo”.
Ci guardammo negli occhi come se ci fossimo già detti tutto. Avevo capito di piacergli da tempo e lui aveva capito che io mi ero innamorata di lui dal primo giorno di liceo.
Lui tremava e arrossiva. Continuava a dispiacersi per l’odore anche se io non ci facevo caso.
“Kikka, grazie…”, poi aggiunse:
“D’ora in poi lo farò da solo. E’ giusto che io cominci”.
….

E’ stata dura accettarlo per la mia amica, ma io e suo padre siamo ancora insieme. Lei non mi ha rivolto la parola per anni. Ora lavora come infermiera nell’ospedale in cui io sono stata medico per un breve periodo e ci vogliamo di nuovo davvero bene.

Giovanni ha riassunto il ruolo di uomo dal giorno in cui ha deciso di arrangiarsi a cambiarsi la stomia che è coinciso con il nostro fidanzamento.
Aveva bisogno delle sue vesti.
Giovanni aveva bisogno di tornare ad essere colui che protegge e dà sicurezze alla propria donna, quello che ti fa sentire leggera e unica nonostante i problemi della vita, l’uomo che sa aspettare il momento giusto, che rispetta in primis i suoi sentimenti e accetta anche le lacrime o la rabbia. E’ tornato ad essere l’uomo che si mette in discussione senza deprimersi e che sa lottare. Ha ripreso la vita in mano. Non ha più paure. Ci è voluto del tempo ma ce l’ha fatta.
Io, lo conobbi proprio così.

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