DUE DIPENDENTI...tutt'altro che VETUSTE

Piove. 
Anche se il mio ombrello assomiglia a quelli che trovi piantati in spiaggia d'estate, mi ritrovo con i pantaloni inzuppati. Qui a Milano è tutta una buca e gli automobilisti sfrecciano sempre di fretta. Poco importa loro se la ruota sulla pozzanghera ti rovina l'ultimo acquisto di Via Montenapoleone. 
Entro in un piccolo bar che è anche tabaccheria e lottomatica. 
Al centro, un grande tavolo rettangolare che assomiglia ad un grande bancone, accoglie tutto intorno degli sgabelli. 
Due signore anziane, sulla settantina mal portati (forse ottantenni) discutono sui numeri dell'estrazione in diretta del tombolone. La più robusta indossa un maxy cardigan verde salvia infeltrito dai forse troppi lavaggi. In testa, una piega mal fatta,  segna una discriminatura nel mezzo. Ha gli occhi stranamente affondati nelle sue quattro rughe per lato. L'altra signora, con lo stampo dei bigodini ancora nei riccioli, veste una maglia fucsia, con dei lustrini tipo paillettes. Si muove sullo sgabello come una bambina, ciondolando con i piedi attaccati a due gambe troppo corte. E' bello osservarle. Non sono come le donne avvolte da quello stato di perenne ansia riguardo al proprio aspetto e attente al rischio di una improvvisa inadeguatezza alle richieste del mondo. No, loro se ne stanno appese nel tempo che scorre impassibile lasciando impassibili ai segni pure loro. Il nocciola attorno alle pupille della signora in verde, mi tiene incollata a quel piccolo riquadro.
Io prendo un caffè e attendo di fronte, in uno sgabellone. I loro discorsi mi catturano e rimango con la tazzina a mezz'aria, tra il soffio e il sorso.
"Sono duecento settimane che non esce l'ottantadue ed io continuo a giocarlo", borbotta quella più robusta, con gli occhi a fessura incastrati tra le rughe.
"Io sommo le date di nascita dei miei familiari e non ho mai perso. Investo  i soldi che vinco in altre giocate e quindi sono sempre in pari. Vinco poco, non porto a casa niente però sono felice", mi racconta la signora con la maglia luccicante, vacillando tra le sue planimetrie emotive.
"Devo pagare altri novanta euro io", dice l'amica a voce bassa guardando me di sottecchi, per timidezza e imbarazzo, che è il fratello minore della vergogna.
"Come novanta?". Chiede l'altra.
"Eh ne ho giocati cinquanta prima e mi ha fatto credito il ragazzo (titolare)".
"Allora basta per stasera Pina, andiamo a casa", la rimprovera l'amica.
"Si andiamo a casa", concorda.
"Lei gioca ?", si rivolge a me la signora smeraldo mentre l'amica la strattona per un braccio.
"No, no. Faccio troppa fatica a guadagnarli e non sopporterei di perderli così", le rispondo schietta.
"Ma noi non fumiamo, no beviamo, non andiamo a cena fuori nè al cinema o a teatro. Sono soddisfazioni queste", mi sottolinea. Come se il vizio passatempo del gioco, riempisse il cuore, la testa e l'anima.
"Dai che andiamo Pina, o vuoi mangiarti la casa?"
"Aspetta Maria, che gioco altri cinque numeri. Ultimi cinque. Sento che è la volta buona per l'ottantadue. Ah come sono felice".

Che fosse un viaggio per cercare la felicità, quello della dipendenza dal gioco, non lo avevo mica capito. Ho visto gente perdere tutto e vendersi tutto per pagare i debiti di gioco. 
Ma col mio borsone in spalla sono tornata in albergo, con i miei spiccioli e il vestitino di Louis Vuitton nella borsa in vinile, pensando che in fondo, siamo tutti malati di qualcosa. E poi quell'ottantadue mica è uscito.

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