Un corpo senz'anima

Ieri quelle mani pelavano melanzane e zucchine, preparavano il ragù della domenica e le lasagne per il pranzo in famiglia. Erano mani che tiravano fuori il pane bollente dal forno, giravano il mestolo nel pentolone della polenta e accarezzavano Menta, la cagnolina pelosa col ciuffetto sugli occhietti. Erano mani lisce, come il velluto, curate e semplici, come colei alla quale appartenevano.
Da oggi quelle mani non faranno più nulla. Sono immobili, riscaldate da un cuore che batte grazie ad una macchina che insuffla aria vitale nei polmoni. Ma quella non è vita.
Oggi quelle mani sono adagiate su lenzuola fredde, in un letto blu e bianco, pieno di pulsanti, in rianimazione.
Le accarezzo, con un tremito delle dita. Le avvolgo. Incrocio le mie dita alle sue. Mi appartengono. Sono così uguali a quelle del mio babbo del quale conservo i ricordi cristallizzati. Quelle macchioline sembrano una spruzzatina di pepe e sono un segno distintivo di tutti noi Guidolin. Anche nonno aveva le efelidi.
Zia non è morta. Il suo cervello si. Se ne è andato dalla coscienza poche ore fa ed io non mi do pace in questa penombra che ammanta ogni cosa e rende la scena surreale.
La fisso. Voglio pensare che dorma. Ha il capo rasato, avvolto da un telo verde che lascia intravvedere l'enorme cicatrice fin sulla fronte. E garze e fasce, cerotti, punti e graffette. Ha le palpebre chiuse e una lacrima, riflesso incontrollato, che rimane impigliata sulle ciglia. Lunghe, come quelle di papà, sembrano quelle di una bambola.
Le mie dita scivolano a lisciare la fronte, le sopracciglia, il naso, e i pensieri si fanno liquidi.
Zia è sempre stata una donna semplice. Non si truccava ma ci teneva ai capelli in ordine. Si faceva la messa in piega e si dava il colore castano. Stava bene.
Con lo zio era uno spasso. I loro bisticci erano segnali di un amore inossidabile e mi facevano sempre sorridere.
Ma cos'è ?. Un refolo d'aria condizionata mi colpisce da dietro e mi obbliga a sedermi dall'altra parte. "Solo un attimo zia". Le parlo come se fosse davvero qui la sua anima.
"Vorrei acciambellarmi come un gattino o abbracciare le mie ginocchia o stendermi con te zia".
Sposto la sedia accanto al letto, più vicina che posso, accanto. Ha le spalle fredde. Allungo il lenzuolo, la copro piano e l'aria si fa fitta di sofferenza mentre il respiro mi graffia la gola.
Piango.
Controllo il monitor. Mi viene spontaneo guardare tutte quelle linee curve e appuntite, dai colori diversi, con numeri che cambiano minuto dopo minuto. Controllo che le linee siano in movimento, che la frequenza cardiaca sia valida, che la pressione non salga troppo. E fisso quel tubo che trapassa la bocca di lato chiedendomi se avrà male.
E per districarmi da quel filo d'ansia che non so spezzare, conto quante siringhe a pompa ci sono. Sono sei. Dopa, Nora, Prop, Manni... sembrano nomignoli di persone, come quelli che usava lei per i suoi nipoti. Con tenerezza li chiamava.
Stanno rotolando i minuti ed io sono sempre più irrequieta. Quello che è successo a zia è come un fulmine che squarcia la notte con prepotenza. Disintegra. Perchè un'emorragia cerebrale di questa entità non lascia speranze. E piango sempre più forte e le lacrime sono irrefrenabili come con papà, esattamente due anni fa. Con lo stesso amaro sapore di morte.
Tutto questo è assurdo.
Il coma vegetativo è assurdo.
Mantenere in vita un corpo senz'anima è assurdo.




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