Bianche Lenzuola

Da una storia realmente accaduta.
A tutela della privacy i nomi sono stati modificati. La storia e' stata scritta con il consenso dei protagonisti.


Lunedi
“Scusi ha da accendere?”
Il signore in vestaglia di velluto bordeaux non si era accorto di lei, nascosta dietro alla colonna con la testa nel cappuccio della felpa extralarge, né aveva sentito la sua fioca voce.
Silvia si avvicinava a lui con la cicca in mano, le spalle alzate fino ai lobi degli orecchi per il freddo tagliente e l’altra mano infilata nell’unica tasca del pigiama a fiorellini. Lui capì che quella sigaretta stava aspettando il suo accendino e non esitò.
“Grazie”, disse Silvia abbassando lo sguardo quasi come se il senso di colpa fosse opprimente.
Lei sapeva benissimo che non le faceva bene continuare a fumare.
Lui invece, l’uomo in vestaglia di velluto, seguiva il consiglio del dottore: potrà mangiare, bere, fumare e dire parolacce se vuole d’ora in poi. Era un modo per dirgli “dato che hai solo un anno forse due di vita, meglio se non ti privi di nulla, tanto il cancro vincerà comunque”.
La stanza numero otto aveva solamente due letti. Stanza dozzinanti. Il signor Martini era ricoverato da due settimane ma il primo di ottobre sembrava essere stato secoli fa. Quando attendi una diagnosi che non arriva mai, le giornate ti sembrano interminabili, eterne.
Ecco, finalmente i medici avevano capito. La diagnosi era chiara. Cancro della vescica infiltrato alla prostata, all’uretra fino al pene; forse anche parte del retto era compromesso. Bisognava togliere tutto e mettere un sacchetto, fare una stomia insomma.
Tra due giorni lo avrebbero operato. Quei due giorni sembravano non arrivare mai.
Il pacchetto di Malboro giaceva in bella vista sul suo comodino, insieme al “Sole Ventiquattrore” e alla valigetta di pelle nera, adagiata ai piedi del letto, aperta.
La stanza era diventata un ufficio della city inglese, gli affari internazionali del signor Martini erano argomento di chiacchere e discussione tra lui e i medici del giro visita. Ogni santa mattina, Wall Street on line, sullo schermo del suo Mac Book, cambiava il suo umore di ora in ora.
“Faresti meglio a riposare, Aldo, non ti fa bene lavorare troppo”.
L’atteggiamento materno della signora che lo accudiva giorno e notte non piaceva affatto al signor Martini. Visibilmente preoccupata, lo riempiva di attenzioni con l’amore e la devozione di una madre con il suo cucciolo. Carinerie sdolcinate dettate da una semplice e sobria malinconia. Lei lo amava davvero suo fratello. Il suo unico fratello.
Aldo mancava molto alla sorella. Si vedeva che erano una coppia affiatata. Non erano mai stati rispettvamente sposati, nessuno dei due aveva avuto lunghe storie d’amore. Lei trascorreva la maggior parte del suo tempo in ospedale, accanto al fratello, nonostante dovesse praticarsi iniezioni di insulina tre volte al giorno e le mancasse l’avampiede. Era stato amputato da pochi mesi.
Emma era diabetica dall’età di ventidue anni. Fu un dramma, ma aveva imparato tutto e sapeva fare l’infermiera di se stessa magnificamente.
Di Aldo amava due cose. Lo spiccato senso degli affari che ne aveva fatto di lui un uomo estremamente importante e ricco, e la sfrenata dolcezza. Il fatto di essere stati adottati li aveva uniti nella sofferenza e in un amore quasi coniugale. Molti, nel loro paesino , pensavano fossero addirittura amanti segreti.
Emma pensava che nascere lo stesso giorno del fratello adottivo, fosse stato un regalo del destino, e il disegno del loro futuro sempre insieme.
I dieci anni di età che li separavano cominciavano però a delinearsi in uno spazio infinitamente piccolo, in effimere cose: qualche gesto sbadato di lei, qualche dimenticanza, qualche ruga in più sul volto sofferto. Emma avrebbe compiuto settantanove anni tra quarantotto ore, nel giorno dell’intervento di suo fratello, lui sessantanove.

Continua ...
Il mozzicone di sigaretta della paziente in felpa extralarge era finito sulla pozzanghera vicino al tombino. Un lancio sincronizzato con quello di Aldo. Anche il suo era finito nella stessa pozzanghera.
Si guardarono negli occhi. Tristi quelli di lei. Sorridente invece, lo sguardo di Aldo, forse per aver infranto la regola del posacenere.
Tornarono dentro. Stesso buio ascensore. Nessuno parlava. Piano terzo.
“Anche lei al tre?”
Silvia fece cenno di si con la testa. Il tepore di quei due metri quadrati aveva scaldato le sue mani gelide.
Si aprì la porta. Un ragazzo vestito da rapper la aspettava nell’atrio mentre un’ondata di odore di fumo uscì da quell’ascensore.
“Ma che cazzo fai?”, si adirò il ragazzino.
Lei, a testa bassa, lo seguì in reparto. Stanza numero sedici.
Silvia era pallida, anemica, magrissima.
In quella settimana di ricovero aveva contato quattordici litri di nutrizione parenterale, infusa nelle sue vene fragilissime. Erano stati costretti a posizionarle un ago sul collo, in una vena centrale, trovata dall’anestesista dopo vari tentativi sul braccio, invani.
Aveva contato anche i litri di soluzione fisiologica infusi durante le ore del giorno e della notte e le quattro sacche di sangue trasfuse il giorno prima.
La situazione era peggiorata nell’ultimo mese, quando stava a Rieti, dai suoi.
Non si reggeva più in piedi e aveva sentito che in questo ospedale del Nord Italia, la chirurgia laparoscopica era all’avanguardia. L’intervento era fissato per la settimana seguente, almeno quando i parametri fossero rientrati nella norma.
Nessuno aveva ancora spiegato a Silvia che aveva due tumori. Uno di piccole dimensioni al retto basso e un cancro più importante nel colon destro che aveva intaccato anche il fegato. Piccole metastasi diffuse su più lobi, erano emerse dall’ultima tac. I chirurghi avevano programmato una stomia di protezione, con un sacchetto per raccogliere le feci sulla pancia.

Le infermiere pensavano che il ragazzino vestito da rapper, che portava un cappellino con frontino costantemente abbassato sulla fronte, fosse il fratello minore di Silvia.
“Scusi lei è.. ?”, Chiese l’infermiera entrando con il carrello delle medicazioni nella stanza.
“Sono il fidanzato”, rispose timidamente e suscitando la perplessità dell’infemiera stessa.
“Può cortesemente attendere in soggiorno?, grazie, giusto il tempo di fare la medicazione della ferita della paziente dell’altro letto”.
“Dai vai Tatu, ci vediamo dopo”. Silvia si rivolse al fidanzato con un tenero nomignolo.
Era evidente la giovane età. Venticinque forse ventotto anni lui, ma ne dimostrava quindici. Silvia invece ne aveva trentacinque.
“Ha trent’anni ma ne dimostra venti”, aggiunse Silvia ai discorsi sull’età che avevano intrapreso con la vicina di letto.
“E’ un rompiballe immaturo. Ancora non ha un lavoro fisso ed io sono stanca di fargli da madre. Maledetta quella volta che l’ho incontrato”.

Silenzio.

Improvvisamente in quella stanza, l’unico rumore percepibile era il fruscio del lenzuolo bianco pulito, che l’infemiera stendeva con cura sul letto.
La frase di Silvia aveva gelato anche le pareti.
Nemmeno lei riusciva a spiegarsi il perché di quella frase, uscita dalle sue labbra come l’aria da un palloncino bucato da uno spillone. Lei, così bella e così paziente, introversa, timida e sensibile, non si riconosceva più.

Qualcuno bussò alla porta.

“Permesso… si può entrare? Silvia ci sei?”
La voce della madre era inconfondibile. Silvia si alzò di scatto nonostante il paletto della flebo appena collegata le impedisse di muoversi bene, e abbracciò sua madre sfogando un pianto incontrollabile.
Era la prima volta che piangeva in tanti mesi di malattia.
“Un attimo signora, ho quasi finito”. L’infermiera non avrebbe voluto dirlo, non avrebbe voluto spezzare quell’abbraccio, ma fu costretta per rispetto della paziente accanto, seminuda ancora.
“Mamma esco io, posso?”. Silvia si rivolse all’infermiera che annuì.
“Quando siete arrivati mamma?”
“Silvia, tuo padre è rimasto giù. Sai, il lavoro in ditta, gli affari, non poteva salire..”
“Certo, come sempre, figurati”. Il tono cambiò improvvisamente.
Silvia soffriva da sempre la mancanza di un padre presente solo nel suo fantasma. Si portava dietro un’ombra impercettibile, un vago ricordo di un sorriso regalatole pochissime volte nell’infanzia e mai nella giovinezza. Ancora si chiedeva come facesse sua madre a stare con quell’uomo.
“Dov’è Mirko?”
“Credo sia in soggiorno mamma”
“Ti è stato vicino questa settimana?”
“Più o meno, ma sono stanca di fargli da madre. Non ho più energie nemmeno per litigare e spesso mi chiudo in un mutismo distruttivo. Lui non mi capisce, pensa solo alla sua stupida musica.”
Prima ancora di chiederle come stava, la madre di Silvia sembrava preoccupata del fatto che nessuno avesse compensato la sua mancanza, in quella settimana di ricovero della figlia.
Si sentiva ancora più in colpa per questo. Avrebbe dovuto esserci lei il giorno del ricovero. Lei, il giorno in cui non trovando più vene al braccio, portarono sua figlia in rianimazione. Lei, ieri, durante le trasfusioni. Aveva capito che Tatu, così come lo chiamava la figlia, era un incapace immaturo, ma di fronte ad una malattia così devastante, nessun essere umano sembra pronto.

Silvia e sua madre raggiunsero Mirko in soggiorno. Stava scrivendo un qualche messaggio sul telefonino. Lo chiuse immediatamente e balzò in piedi, porgendo la mano alla suocera, che non aveva mai conosciuto di persona.
“Piacere signora, io sono Mirko”.

Continua...

Silvia aveva parlato di Mirko con sua madre solamente al telefono. Le aveva raccontato della vivacità di questo Dj molto conosciuto nelle discoteche del Nord Italia, che le aveva colorato la vita grigia e monotona d’ufficio, dove Silvia trascorreva la maggior parte del suo tempo, come ragioniera commercialista in tailleur nero e tacco a spillo. Un’altra Silvia insomma.
Si erano conosciuti in una discoteca, dove lei lavorava come PR e ragazza immagine.
Silvia era una modella davvero stupenda. Alle passerelle preferiva il caos e il ritmo delle discoteche affollate ma di servizi fotografici ne aveva fatti parecchi. Le particolarità del suo volto erano gli occhi verdi, da gatta, e i capelli rossi ramati, che portava a volte in un caschetto ordinatissimo e stirato, altre volte a spazzola, sparati in un look aggressivo, prima della chemioterapia ovviamente.
Qualche piercing qua e là poco visibile e un grandissimo tatuaggio sulla schiena, un drago, che suo padre non aveva mai visto, la contraddistingueva dal conformismo delle sue colleghe d’ufficio. Aveva sofferto le pene dell’inferno per sottoporsi a quella tortura. Interamente colorato nelle sfumature del verde, lo esibiva in discoteca su scollature profonde della schiena, fino ai glutei.

Ma da sei mesi il suo corpo non era più lo stesso. La malattia consumava ogni centimetro di muscolo più velocemente del previsto e nonostante la feroce chemioterapia intrapresa a Rieti, la soluzione chirurgica era l’ultima spiaggia. Il viaggio della speranza da Rieti a Treviso le permetteva ancora di regalarsi qualche sogno.
E’ incredibile come una semplice infusione possa essere così letale per le cellule.
Silvia di cicli di chemioterapia ne aveva fatti tre, combattendo con tutta se stessa contro la nausea e l’astenia, una stanchezza perenne che non ti consente una vita normale, come quella che hanno le amiche della tua età, già mamme e mogli. I capelli li aveva persi tutti dopo il primo ciclo.

Mirko si avvicinò a Silvia teneramente, ponendole la sua maxi felpa sulle spalle. La stessa che le aveva prestato per scendere al piano interrato, per fumare l’ennesima sigaretta.
“Dai torniamo in camera, Silvia.” Le disse Mirko.
“Ho bisogno di tornare giù a fumare”, insistette lei.
“Ma se l’hai appena fumata cazzo ti vuoi fumare il cervello per sempre?”
Mirko cominciava a perdere la pazienza. Erano molti gli episodi ultimamente in cui perdeva la pazienza. Silvia non ci fece caso e andò verso l’ascensore spingendo il paletto della flebo da sola, coprendosi il capo lucido con il cappuccio e avvolgendo una manica a mò di sciarpa, attorno al collo. I fiorellini del suo pantalone di pigiama le ricordarono che forse sarebbe stato meglio un pantalone felpato, l’autunno qui era proprio umido e il freddo le penetrava nelle ossa.
Si voltò indietro, verso il suo Tatu e verso sua madre: “Aspettatemi in stanza, torno subito”.
Loro però non potevano immaginare che quella sigaretta sarebbe stata lunghissima.


continua ...

Lui era di spalle, avvolto nella vestaglia bordeaux. Un’altra sigaretta anche per lui. L’ennesima sigaretta di quella stecca non più nascosta nell’armadio.
Stavolta si accorse di lei non appena le porte dell’ascensore si aprirono, come se l’avesse aspettata.
Lui aveva l’accendino in mano. Puntò lo sguardo dritto nel suo, penetrante negli occhi verdi. Le offrì il fuoco e lei si avvicinò dolcemente, con la sigaretta già in bocca, per accenderla non appena furono fuori dalle porte. Silvia aveva portato un piccolo accendino, ma si fece trasportare dall'amabile gentilezza di quell'uomo, lasciandolo in tasca.
Lei aveva un paio di infradito rosa. Le aveva comperate al mare ad agosto. Le davano un senso di libertà, la stessa libertà che aveva cercato dieci anni fa, quando se ne era andata a vivere da sola.
“E’ ricoverata nel reparto chirurgico?”, chiese gentilmente il signore in vestaglia di velluto, dandole un lei, formale ma elegante.
“Si. Devono operarmi tra qualche giorno”, sottolineò lei.
L’accento latino era inconfondibile per il signor Martini, abituato a stare lunghi periodi a Roma.
Quelle doppie aggiunte a tutte le parole, la cadenza particolarissima. Amava quel dialetto.
Lui continuava a fumare, guardandola negli occhi lucidi, espressivi. Forse le lacrime non riuscivano a sporcare quel viso d’angelo, ecco perché erano lucidi e basta.
Lei non era affatto turbata. C’era un qualcosa in lui, forse il suo profumo, forse il viso curato, forse la presenza rassicurante, che le piaceva e non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
“Ha degli occhi incantevoli, ma lo saprà già, immagino”. Fu lui a rompere il silenzio.
Silvia si voltò dall’altra parte, soffiando via il fumo di sigaretta con forza, quasi a voler far sparire quella nuvola di nebbia tra loro, per tornare a posare lo sguardo su di lui. Non si sentiva bella da troppo tempo. Quel complimento aveva risvegliato in lei il desiderio di superare in fretta tutto quanto e di riscattare la sua sciupata femminilità.
“Grazie”, disse semplicemente.
Lei non seppe aggiungere altro. Né gli chiese nulla. Ma aspettò che lui finisse gli ultimi millimetri di tabacco prima di rientrare tremante di freddo. Poi, lanciò il mozzicone sulla pozzanghera, che aveva tenuto in mano per farlo insieme a lui.
Sorrisero. Poi, con galanteria, lui le aprì la porta. Un vero signore.
L’atrio del piano semi interrato ha i distributori del caffè di fronte ad una fila di poltroncine azzurre. Lui sapeva benissimo che lei non avrebbe potuto bere alcunché e le chiese di farle compagnia mentre sorseggiava una decaffeinato.
“Lei è ricoverato dall’altra parte del reparto?”
“Stanza numero otto, si”, spiegò lui.
Silvia si dovette sedere sulle poltroncine. La stanchezza non le dava tregua. Abbassò sulle spalle l’ampio cappuccio, che le copriva totalmente il capo. Era impossibile non notare la testa rasata, lucida, dove ogni bulbo pilifero aveva chiuso i battenti, sconfitto dalla chemioterapia.
Il volto di Silvia era davvero bello. Il disegno a matita dell’arco sopraccigliare e la bocca carnosa la rendevano protagonista di un insolito quadro. Avete presente la ragazza con l’orecchino di perla, il turbante in testa, la bocca rosea e il viso pallidissimo?. Era lei. In una perfezione assoluta dei lineamenti. La testa lucida quasi le donava, nella perfetta geometria del suo volto senza imperfezioni.
Ma il signore in vestaglia girò la testa da un’altra parte, immediatamente, quasi imbarazzato per lei.
In realtà era visibilmente scosso e aveva capito tutto. Aveva capito di trovarsi sulla stessa strada, lo stesso sentiero impervio dove non sai quello che ti aspetta in cima.
“Emma sei qui?”.La sorella lo aveva raggiunto alle macchinette del caffè.
“Aldo ancora giù a fumare? “, le chiese preoccupata.
Aldo… ??? Che strana la vita pensava Silvia. Era lo stesso nome di suo padre.
La sorella del signor Martini si accorse della presenza di Silvia e le accennò un debole sorriso.
“Signorina la sua flebo è finita, deve chiudere il deflussore”.
Emma era un’infermiera mancata ormai da molti anni. Aiutò Silvia a chiudere il deflussore mentre con fatica si alzava dalle poltroncine.
“Grazie ancora per l’accendino, …Aldo.”, disse Silvia.
Lui le porse la mano per aiutarla, con un pacato sorriso di felicità.
“Si figuri”, rispose emozionato, e stringendole forte la mano voleva parlarle con quella semplice gestualità.
Poi, mentre lei chiamava l’ascensore, lui rimase ancora qualche minuto a sorseggiare il caffè amaro insieme alla sorella, girato verso Silvia, che era di spalle, ma era come se vedesse il suo sguardo. Sentiva gli occhi puntati, in una piacevole attenzione.
In lei, una strana sensazione si appropriava del suo corpo scheletrico, mentre schiacciava il tasto del piano tre. Gli occhi del signore in vestaglia bordeaux le avevano detto qualcosa prima. Lo capiva dalla velocità dei battiti del suo cuore.
Anche Emma fissava Silvia senza farsi notare, di soppiatto.
Sapeva perfettamente che a suo fratello sarebbe toccata la stessa sorte. Tra meno di quarantotto ore.


continua ...

“Allora Mirko come ti sembra Silvia?”
Mirko stava guardando fuori dalla grande vetrata, stretto nelle spalle della sua t-shirt bianca, a braccia conserte. Il pantalone abbassato sul cavallo e i capelli tinti di biondo platino ne esaltavano le sembianze da ragazzino, non ancora abbastanza uomo, non ancora abbastanza maturo.
Con Mirko Silvia era un’altra persona e quale fosse la vera, lo sapeva solo la madre. Una cosa era certa: mirko non la amava più. Stava con lei solo per un tremendo e assurdo senso di colpa.
L'amore era sprofondato negli abissi dopo il primo intervento di Silvia, otto mesi prima.
Quel tumore al seno che l’aveva mutilata a destra, completamente, era stato per Mirko devastante. Aveva perso l'attrazione per lei e ogni gesto d'affetto era dettato solamente dalla consapevolezza che a Silvia rimanevano pochi mesi di vita.

"Silvia sente molto la sua mancanza signora, pensa di fermarsi fino all’intervento?” chiese Mirko alla suocera.
“No non credo, tornerò a Rieti domani, e poi il giorno dell’intervento saremo qua con voi”.
Era incredibile come la madre avesse sottovalutato la gravità della figlia

Salutata Silvia secondo convenevoli frasi impostate, Mirko se ne andò dall'ospedale insieme alla suocera e Silvia si coricò a letto. Dietro alle sue spalle, un'ombra sull'ingresso della stanza la fece sussultare. Era il signor Martini, voleva augurarle la buonanotte, l'indomani sarebbe stato lui sotto ai ferri.


continua ...

Nella più completa naturalezza, come se si fossero sempre conosciuti, il signor Martini raccontò a Silvia con sincerità il turbinio di emozioni e tutte le sue paure.
Lei lo ascoltò attentamente e per la prima volta non si sentì sola nella malattia.
"Silvia sei bellissima". Lei arrossì, ma nel buio della stanza lui non se ne accorse.
Aldo si sedette nella poltrona accanto al letto di Silvia e posò la mano sulla sua.
Lei sorrise, e si lasciò scaldare da quel sincero affetto quasi paterno.
"Volevo augurarti tutto il bene che posso Silvia. Domani mi opereranno e se Dio vorrà, tornerò in reparto dopodomani. Dimmi che mi aspetterai".
Lei lo fissava negli occhi. Era già persa nel suo sguardo. Si era innamorata dal primo momento che lo aveva visto.
"Cer-to Aldo", balbettò con il cuore a mille battiti al minuto.
"Grazie". Silvia lo ringraziò come se le avesse donato un pezzo di vita, una carica mai provata prima, la voglia di lottare, la forza di non sentirsi sola nella battaglia, la sicurezza di farcela, un attimo di felicità.
Parlarono per ore, si fecero molte promesse, come se ognuno conoscesse il destino dell'altro. Come se entrambi sapessero che i giorni a venire li avrebbero trascorsi insieme. Come se ognuno fosse l'artefice del destino dell'altro.
L'infermiera giunse in stanza verso mezzanotte per sostituire la flebo a Silvia e convincere il signor Martini a tornare a letto, ma Aldo non voleva abbandonare quella poltrona e Silvia gli teneva la mano troppo stretta per riuscire a liberarsene.
Lei sapeva quello che avrebbe dovuto fare l'indomani. Mirko sarebbe arrivato in tarda serata e anche se una camera d'ospedale non è il posto migliore per lasciarsi, lei non aveva alternative.

La sua mano accarezzò il volto preoccupato e triste di Aldo. Lui le baciò le dita teneramente. Poi, azzardò un bacio in fronte e i due si abbracciarono per un interminabile tempo. Un abbraccio puro, sulle bianche lenzuola, che trovava giusto spazio nella tragica malattia.

continua...

L'intervento di Silvia era stato programmato fra quattro giorni.
Aldo era irriconoscibile dopo il suo.
Lei aveva trascorso moltissime ore accanto a lui. Lo aiutava persino a lavarsi. La sorella di Aldo la lasciava fare, aveva capito, era una donna intelligente.
Mirko si era volatilizzato in un battere di ciglia e la madre di Silvia stava per raggiungerla in ospedale.
Non passava ora che Silvia non andasse a trovare Aldo. Si sedeva accanto a lui, stretta nella sua vestaglia bordeaux, adagiata sulle spalle. Lui sapeva tutto di lei e lei tutto di lui. Era un amore incondizionato, profondo, oltre ogni limite.
Era l'appiglio alla vita. Per entrambi.

Continua...

Silvia subì un intervento palliativo. La situazione critica non consentì ai medici di fare alcunchè oltre a quello di posizionarle un sacchetto per le feci. La disperazione della madre e del padre non faceva affatto bene a lei, che cominciava a capire.
La difficoltà ad alimentarsi dal giorno dell'intervento, la teneva legata ad una nutrizione parenterale tramite la vena giugulare. La situazione clinica sembrava precipitare di ora in ora.
Aldo contrariamente, si riprendeva alla grande e continuava a sognare la sua vita con Silvia, una volta dimessi dall'ospedale, nonostante lo aspettassero terapie chemioterapiche a breve.
Erano le dieci del mattino quando lui pensò di scendere ai distributori di fiori del pianterreno.
Con l'aiuto della sorella e di un girello per deambulare, scese a comperare un'orchidea in scatola. A silvia piacevano un sacco le orchidee, glielo aveva raccontato lei.
Risalì dopo un quarto d'ora.

Lasciò il girello in camera e si fece accompagnare dalla sorella nella stanza di Silvia.
Fuori della porta chiusa, un corteo di parenti aspettava di entrare. Cosa è successo?
Aldo non poteva credere ai suoi occhi. Qualcuno in lacrime?
Non ebbe il coraggio di chiedere. "Sss-Sil-via", singhiozzò aggrappandosi alla sorella.
Uscì in quel momento dalla stanza il medico di reparto che aveva concluso la visita.
I volti pallidi dei parenti lasciavano presagire il peggio.
Aldo cercava di sbirciare oltre la porta, cercava quello che non voleva vedere: un bianco lenzuolo.
Invece Silvia era là, pallida ma seduta; accennava ad un debole sorriso con gli occhi. Aspettava Aldo e la sua orchidea.
"Credevo di non vederti più", gli disse mentre entrava prima degli altri. E lui, che avrebbe voluto dirle la stessa frase, la abbracciò in lacrime. "Sono qui piccola mia", le disse.
Il profumo della vestaglia in velluto bordeaux era esilarante. Era il profumo della sua pelle, era il calore dell'amore. L'amore che non conosce barriere, età o limiti.


A silvia avevano dato pochi mesi di vita già a settembre 2009.
A dicembre 2010 (15 mesi dopo) le condizioni cliniche erano stabili, incredibilmente stabili. Ha vissuto con Aldo e la sorella di lui, che si occupava di entrambi fino al 16 marzo 2011, quando e' deceduta tra le sue braccia, tra le braccia di colui che le aveva donato un pezzo di vita, tutto il suo cuore, la stima e il rispetto.
Aldo è tutt'ora un mio paziente e sta benissimo.

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